Tanino era sudato, le mani unte, i polpastrelli anneriti dal grasso, le unghie sbrecciate, ma aveva ancora in bocca un ricordo di scorza di limone. Per il gran caldo, una bestemmia gli si era incollata al palato, ed erano le sei appena, troppo presto per cominciare. Una gomma a terra proprio al primo viaggio, il primo giorno di lavoro.
Il cavalier Scibilia si accese un toscano imprecando verso sud. Uomo di parole e di cose, Salvatore Scibilia, soprattutto di cattivo carattere. Si tolse il ventilato e si tamponò la fronte con il fazzoletto. Allora questo ferrovecchio riparte, sputò cattivo. Riparte, riparte, gli fece eco una vecchina, la faccia da torrone modicano tanto era raggrinzita dagli anni. Tore Scibilia le rifilò uno sguardo scivoloso, uno di quegli sguardi che non meritano neanche i gatti randagi, come a dire sciò, fila via.
Appoggiata al muro scrostato del tabacchino, la saracinesca ancora abbassata, Margherita Guardiano, fu Cavalier Basicò, soffiava fuori il fiato nella speranza di rinfrescare l’aria, mentre con la destra si faceva vento con una rivista. Vedova anzitempo, stanca di dover rendere conto a un intero paese anziché solo al povero Toniuzzo e alla di lui mamma, aveva deciso di partire, un telegramma al fratello a Milano, lavanda nella valigia, la casa chiusa e le chiavi a Rosina per annaffiare le piante e governare le bestie.
Il venditore di panelle continuava la sua litania ungendo la piazza di parole e semi di limone, Panelle panelle calde panelle…
E Tanino sudava. Continuava a strusciarsi le mani sui pantaloni della divisa nuova oramai ridotti a una fantasia di strisciate nere di grasso. La verità era che una gomma lui non l’aveva cambiata mai. Eppure quel dolore improvviso, le labbra strette tra i denti, gli occhi di brace e le mani che già menavano l’aria. Un ragazzino, pantaloni corti e calzettoni lunghi, armato di cerbottana gli aveva sparato un cartoccetto di carta.
Lo vide sparire dietro un angolo rincorso dalla sua risata.
Il venditore di panelle armeggiava all’interno del carrettino. Si rigirava la canna tra le mani, la canna liscia e lucida. Cacciò la testa fuori e annusò l’aria come un cane. In piazza tutti gli occhi e lingue erano puntati su Tanino, sulle sue di mani che s’inerpicavano claudicanti su pinze e bulloni, sul petto della signora Guardiano che si alzava e si abbassava, si alzava e si abbassava, sulle bestemmie tra i denti del Cavielier Scibilia. Margherita Guardiano tirò il fiato, figlio mio così ci fai morire… quanto ancora? Poi, rivolta a Tore Scibilia, lei che sa tutto, lo aiuti, no? Il cavaliere si limitò a fare spallucce e a girarsi dall’altro lato della piazza. Intanto Tanino smoccolando aveva già piazzato il cric, girato la manovella in senso orario, utilizzato la chiave a ruota per svitare quello che c’era da svitare.
Il cavaliere seccato agitava le mani come a scacciare mosche dal completo avana, allora questo pneumatico… mi devo proprio sporcare il vestito nuovo, fet…?
L’insulto gli s’inceppò tra i denti. Il cavalier Scibilia portò le mani alla nuca tirando indietro il collo come un tacchino. Si piegò in avanti e dopo aver cercato invano altre parole, si accartocciò al suolo. I presenti gli si fecero subito intorno a capannello. Il cameriere del bar Kursal, che aveva appena iniziato a tirare fuori le sedie, ne allungò una alla vecchina raggrinzita che si stava sturbando alla vista del sangue. Margherita, in punta di piedi, s’infilò nell’autobus. Tanino aveva allora allora stretto l’ultimo bullone.
Nessuno si accorse dell’improvviso silenzio sotto quel sole astioso. Nessuno prestò attenzione al cigolio di ruote. Nessuno notò l’improvvisa assenza del venditore di panelle. Era già lontano, e del carrettino non era rimasto che un vago sentore di limone.