Arrivò fino a Ponte Testaccio, quello che se prosegui ti porta in Via Galvani, e alla Piramide Cestia e al Circo Massimo, oppure a Caracalla. Ma lui di Roma non sapeva nulla. Era arrivato lì solo per caso, nuotando nell’acqua color cenere che gli antichi chiamavano Albula, o Rumon, o Thybris. Attorno a lui c’era gente che strillava, lo chiamava eccitata dalle rive, lo avvicinava su piccole barche. Lui proseguiva senza ascoltare niente, senza rendersi conto del clamore.
Quando a Ostia si era infilato dentro il fiume non pensava di arrivare fino a lì. Roma era un miraggio irraggiungibile, destinato a disfarsi tra i riverberi ogni volta che sembrava di toccarlo. Ma adesso c’era, nel cuore di una città solo annusata, solo intravista fra un respiro e l’altro. Sentiva che il frastuono lo assordava. Sentiva che le voci lo inseguivano. Si fermò. Virò sott’acqua e tornò indietro. Il giorno dopo anch’io giurai di averlo visto. Era un delfino. Era un miraggio perduto tra i riverberi.