Nel lontano 1963 fu mio zio Vittorio De Feo (1928-2002), marito di Donatella, sorella di mio padre, ad avviarmi all’interesse per l’architettura. Aveva l’inestimabile pregio di suggerire le idee più complesse con modi semplici ed accessibili: virtù rara che gli scendeva per li rami, da quel tratto inconfondibile della cultura intensa e raffinata che maturava negli ambienti della Napoli intellettuale, di matrice crociana, poi riversata nel materialismo storico per via di una rigorosa ma non ossificata impronta morale.
Vittorio era un modernista assai sensibile ai valori dell’ambiente, della storia, del territorio: di questo insieme di esigenze fece un abito stilistico che impronta tutto ciò che ha costruito in quasi mezzo secolo di attività. Il suo primo libro del 1963 era dedicato alle avanguardie moderniste in Urss: una novità per quel momento, che attirò la attenzione dei più giovani, proiettati verso tendenze avveniristiche nell’esercizio della progettazione quando ancora la ‘idea di architettura’ esercitava un pieno fascino come leva di cambiamenti sociali connessi alla dimensione ‘estetica’.
Nel tempo, Vittorio di libri e di opere ne fece tante altre: dagli studi sulla piazza del Quirinale, all’interesse portato per l’opera di Padre Pozzo, agli studi sulla Piazza di Monte Citorio, agli interventi per sistemare quartieri a Napoli e Perugia, fino all’ultima sua costruzione, la Chiesa di San Tommaso nella Università di Tor Vergata, che resta probabilmente il suo piccolo capolavoro quale sintesi del suo modo di legare passato e presente nell’arte del costruire.
Vittorio fu professore universitario a Venezia e poi a Roma, divenne accademico di San Luca, sempre presente nel dibattito architettonico nazionale e internazionale come testimoniano gli scritti, le conferenze e la presenza in mostre allestite dalla Biennale di Venezia e dalla Triennale di Milano. Attento al gusto barocco come al postmoderno (si occupò di Robert Venturi) il mio caro zio Vittorio era uomo disincantato e ironico, e pure rigorosissimo nel disciplinare la professione di architetto, che fino all’ultimo predicò senza cedere a compromessi facili.
Scrisse sempre sul tema, a metà tra il gusto surreale e quello di una lirica rievocazione, con immaginari effetti thrilling e l’apporto di disegni a commento, e fece circolare racconti brevi tra i suoi amici (“Tre racconti di architettura”; “Manuale breve per aspiranti architetti”).
Il materiale d’archivio del suo studio è stato vincolato in quanto “di estrema importanza per la storia nazionale e internazionale dell’architettura” ed è conservato presso il MAXXI di Roma.