Abbracci

Vado alla Coop a fare spesona, tra un consiglio di classe e l’altro. Parcheggio sulla terrazza all’aperto, mi concedo un caffè, e poi coda, scaffali, carrello, cassa e di nuovo nel parcheggio. Scarico, carico, ripongo carrello, mi siedo al posto di guida e… non parto.
Mi fermo ad osservare, forse a spiare – sì, certo, a spiare – una scena che attira la mia attenzione. Nell’angolo estremo della terrazza, dove c’è un altro punto di deposito carrelli, incastrati tra questi e le macchine parcheggiate, un uomo e una donna. Avvinti. Si abbracciano, si stringono, nascondono i visi nell’incavo tra il collo e la spalla l’un dell’altra, si stringono, tacciono, si stringono, gli occhi chiusi, si stringono.
Passano lunghi minuti. Stretti ancora, la donna comincia a parlare (non sento nulla, sono in macchina, finestrini chiusi), gli occhi sempre chiusi. Parla, parla, parla, il viso sofferente. L’uomo non dice nulla, la stringe ancora più forte, e la stretta è anche carezza, consolazione, rifugio, ristoro. Poi lui si abbassa e le sfiora il seno con un bacio, per poi tornare ad affondare il capo sulla spalla di lei. Si stringono, si stringono, si stringono, l’un per l’altra zattera e salvezza.
Poi un cane, prima nascosto dalla macchina, comincia a dar segni di insofferenza, si allontana dai due, girella sul piazzale, tra le auto. Allora i due escono dal loro angolo d’amore e seguono il cane, si staccano, ma è come se la stretta proseguisse nel loro sguardo. Dallo specchietto retrovisore li guardo entrare nell’ascensore che porta al market. Mentre la porta si chiude, li vedo di nuovo abbracciati nella loro dolorosa felicità. Rimango ancora stupidamente a fissare l’ascensore chiuso.
Poi metto in moto e imbocco la strada di casa ma, come vedete, sono rimasta ancora là.

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