Acquagym

L’istruttrice ci mette entusiasmo. «¡Empujo! ¡Empujo! ¡Empujo! ¡Dale dale dale! ¡Excelente!» grida dal bordo piscina. Ci fa segno di spingere l’acqua con una mano verso il basso: con la destra, con la sinistra, poi ancora con la destra e ancora con la sinistra. La cassa pompa musica a un volume di tutto rispetto. Suona una cumbia che mi sembra uguale a quella di prima e che però, devo dirlo, mi mette allegria.
All’inizio avevo snobbato le lezioni di acquagym nella piscina dell’albergo. Un po’ per una riservatezza tendente alla germofobia, che mi faceva diffidare di una bacinella lunga, a occhio, dieci metri per tre, in cui un gruppetto di sconosciuti avrebbe messo a mollo i propri batteri e secrezioni per un’ora. Un po’ per una ritrosia a buttarmi in situazioni di entusiasmo imposto, in cui ci si deve divertire per forza. Alla fine, però, mi ero decisa a provare. Anche perché avevo ricordato che, ehi, mi piace ballare.
«¡Giro!»
Imito l’istruttrice, stendo le due braccia verso l’alto, con i pugni chiusi. Un fresco leggero mi pizzica la pelle mentre emergo dall’acqua piacevolmente calda. Faccio ruotare le braccia mentre inarco la schiena e accompagno il mio giro completo con un roteare dei fianchi. Non posso fare a meno di pensare ai peli che mi ritrovo sotto le ascelle, due bei cespugli neri. Da qualche anno, mi depilo solo ogni tanto, a intervalli di diversi mesi. Sarà perché ho scoperto che i peli sono utili a trattenere i batteri lontano dalla cute. Sarà perché credo che non abbia senso sprecare tempo, soldi e dolore fisico per qualcosa di così poco necessario come una pelle molto liscia. Lo dico chiaro: sarà perché sono femminista. E quindi le braccia le stendo eccome, mica mi vergogno. E poi, quanto potrà mai durare questo giro?
Insomma, quando finisce questo giro?
«¡Otro lado!»
Ah. Pure.
Una canzone mi distoglie dai miei pensieri tricologici e mi ricorda casa. È Beggin’, cantata dai Måneskin. Ovviamente remixata.
Il nostro faro inizia una corsa a ginocchia alte sul posto. Questa mossa mi piace, sento la resistenza dell’acqua, che mi fa fare più fatica di quella che sentirei all’asciutto. Mi piace la fatica. Sento i glutei che rimbalzano mentre mi rimbalza nella testa il mantra di tutte le pubblicità di creme, sieri, fanghi: Tonifica.
Sono magra. E sarò anche tonica. Il culo mi tornerà sodo, come ai tempi d’oro degli allenamenti sportivi tre volte a settimana, dopo la scuola. Mica per compiacere qualcuno. Lo farò per me.
I’m beggin, beggin’ you, so put your loving hand out baby.
Sono felicemente decostruita. In itinere, perché la decostruzione è un processo continuo, che non finisce mai. Sono anni che non indosso il reggiseno. Il mio seno piccolo non ha bisogno di impalcature. Preferisco che stia comodo e poi è bello così. Non mi trucco quasi mai. Sono bella così.
Ho comprato un borsello azzurro acceso, con dei ricami di tutti i colori. Un borsello, come quello, generalmente nero, che usano le mamme che hanno molte cose tra le mani e un gran bisogno di praticità, o che si vede al petto di un ragazzo tedesco qualsiasi.Lo indosso ad altezza sterno, al posto della borsa. Non ho borse nell’armadio, solo zaini e, appunto, un borsello. Lo metto a tracolla sopra magliette bianche con al centro stampe vivaci e pantaloni blu, larghi e comodi, che lasciano respirare le cosce e la fica.
Se invece un giorno, raro, ho voglia di un abito aderente, lo indosso sapendo che lo faccio per me e a modo mio. E comunque senza impalcature, lasciando che il mio seno taglia prima attiri la perplessità di alcuni – poteva coprirli i capezzoli – il disprezzo di altre – che brutta, ma un push-up no? – e la solidarietà di poche – ti stimo, sis. Ecco quanto sono decostruita.
Tonifica. Tonifica.
La nostra maestra vuole che teniamo le braccia parallele al pavimento, altezza spalle, e che spingiamo l’acqua in avanti, alternando la mano destra e la mano sinistra, mentre ruotiamo il busto da un lato e dall’altro, come a tracciare una mezzaluna immaginaria. Aleggia un odore di sudore.
«¡Muy bien!»
È di nuovo il turno di una cumbia.
Eres mi chica sexy, eres mi chica sexy.
Mi guardo intorno. Nella piscina siamo tutte donne. Sono la più giovane, di gran lunga. Una signora di mezza età muove le mani in aria, fuori dall’acqua. Forse vuole barare, perché in aria c’è meno attrito. Oppure non ha capito bene come si fa, perché non sta prestando molta attenzione: in fondo è lì per divertirsi, no? Ride. Una sua amica approfitta di questa mossa per schizzarle l’acqua addosso, tanto ha una buona scusa. Ridono, con le guance arrossate dal lavoro fisico, ma anche dal piacere del gioco. Una signora anziana di fronte a me, con indosso degli occhiali da sole che schermano un viso severo, compie a malapena un movimento, accennato, ogni quattro o sei dell’istruttrice. Ha una serietà dignitosa. Sorelle, vi stimo. Tutte. Perché riuscite a godervi la vita, senza vergogna. Nonostante quelle braccia flaccide.
«¡Costadito!»
La profesora – così la chiamano – allarga lateralmente prima un piede e poi l’altro.
Sorrido. Mi sento a mio agio.
Stringo un po’ il sorriso. Non voglio diventare vecchia.
La cumbia successiva l’ho già sentita. Ci metto un attimo a fare il collegamento. Infatti, il ritornello
arriva puntuale.
Perra, perra, tú me abandonaste como a un perro. Perra, ojalá te vayas al infierno.
“Perra”, cioè “cagna”. Ma più precisamente, a seconda del contesto – e questo è quel contesto – “stronza” e “puttana”. Una frase che sembra tratta da un ipotetico manuale Patriarcato for Dummies. Sottotesto: “questa troia non può permettersi di lasciarmi, perché io la possiedo e senza di me lei non è niente”.
Giro la testa alla ricerca di un cenno, di uno sguardo complice. Tutte le mie compagne di acquagym parlano spagnolo come lingua madre, perciò devono averci fatto caso. O no? Ma sì, adesso fermo tutto, alzo la mano e chiedo di interrompere la lezione. L’istruttrice spegnerà la musica e io spiegherò cosa mi ha turbato. Tutte saranno d’accordo sul fatto che quel verso è un’indecenza e che non possiamo avallare questo ennesimo prodotto di un sistema sessista, che vuole discriminarci e oggettificarci. Indignate, risolute, scriveremo una lettera all’etichetta discografica e alla band. Diremo che chiediamo loro di assumersi la propria responsabilità.
Aggiungeremo che non vogliamo scaricare tutto su di loro, perché sappiamo che questo tipo di violenza verbale è sintomo di uno schema ben più ampio, che si può scardinare solo se la categoria “maschio” tutta si assume la responsabilità collettiva dell’oppressione delle donne.
Riceveremo delle scuse pubbliche dai destinatari della lettera e insieme a loro andremo in piazza per organizzare un dibattito aperto a tutta la cittadinanza sul ruolo dei testi musicali nella lotta femminista. E di sicuro questa canzone non comparirà più, mai più, nella playlist della nostra…
«Inspiro»
Mi accorgo che sto facendo stretching. La profesora ha alzato le braccia al cielo, le tiene dritte come palette e ci invita a stirarci, ad andare più su che possiamo, mentre tratteniamo l’aria nei polmoni. Lo sto facendo anch’io. La musica è più lenta e rilassante, questa volta senza parole, solo musica. La lezione sta per finire.
«Expiro»
Che fatica.

3 commenti su “Acquagym”

  1. Valeria Frescura

    Un testo davvero notevole, mi ha divertita e ha sollecitato molte riflessioni. L’ unica nota stonata, ma si tratta di una mia insofferenza: i pantaloni larghi che danno aria alla fica. Da vecchia femminista ricordo il fastidio che mi davano gli apprezzamenti espliciti di alcuni maschi, riferiti al refrigerio dei genitali grazie ai nostri vestiti larghi, alle gonne ampie e ventilate. Ma, ripeto, è un mio problema, forse solo anagrafico, e non mi ha impedito di ammirare tutto il resto

    1. Giovanna Nuvoletti

      Ti capisco. Anch’io ho avuto un brivido. Ma ho pensato che stava con lo stile del testo. Moderno. Io di mio oltre a dire pisella non arrivo… ma ho 82 anni

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