Addio, signora Thatcher

Era del 1925, lo stesso anno in cui nacque mio padre. Quando divenne Primo Ministro del Regno Unito, nel 1979, ero un quindicenne radical che la odiava per partito preso, sapendo e capendo poco o nulla della sua politica. Però mi piacevano i dischi dei Clash, che intitolarono un loro album Sandinista solo perché la Thatcher voleva proibire l’uso di quella parola, o di Morrissey, che in una canzone si augurò la morte della Iron Lady per mezzo di una ghigliottina. Quando scoppiò la guerra delle isole Malvine, nel 1982, fu difficile scegliere con chi schierarsi, tra i generali stragisti argentini e la terribile Madam britannica. Una cosa è certa: se non ci fosse stata, non avremmo avuto capolavori del cinema inglese come Riff, Raff o Piovono pietre, firmati da Ken Loach, o The Full Monty, di Peter Cattaneo. Di lei però, una volta che la vidi in TV, mi impressionò soprattutto una cosa: il modo in cui porgeva le parole, in un inglese assolutamente perfetto, capace di ammaliare chiunque. Se siete stati almeno una volta a Londra e dintorni, sapete come parlano male gli inglesi, sapete cosa voglio dire. Mentre parlava, lei non era inglese, era l’Inghilterra: alle sue spalle si sentiva l’eco di un impero, cancellato da tutti i mappamondi, ma concentrato nella forza di una voce.

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