La notte
Della notte so poco
ma la notte di me sembra sapere,
e in più ancora, mi assiste come se mi amasse,
mi ammanta di stelle la coscienza.___
Forse la notte è la vita e il sole la morte.
Forse la notte è nulla
e nulla le nostre congetture
e nulla gli esseri che la vivono.
Forse le parole sono l’unica cosa che esiste
nel vuoto enorme dei secoli
che ci graffiano l’anima coi ricordi.__
Ma la notte conosce la miseria
che succhia il sangue e le idee.
Scaglia l’odio, la notte, sui nostri sguardi
che sa pieni di interessi, di incontri mancati.__
Ma accade che la notte ne senta il pianto nelle ossa.
Delira la sua lacrima immensa
e grida che qualcosa è partito per sempre.
Un giorno torneremo a essere.
La notte di Alejandra Pizarnik letta da Anna Toscano
Alejandra Pizarnik è la parola, il linguaggio, che ancóra all’esistenza e al contempo rende alieni: una poesia intrisa di linguaggio la sua, una ricerca continua di senso e di significato anche per la vita. Quello di Pizarnik è spesso un gioco di specchi, dove la poeta vede se stessa che vede un’altra, dove una e l’altra stanno su fronti diversi, una nel giorno e una nella notte, in un continuo richiamarsi. È la notte, spesso nei suoi testi, che paradossalmente rende le sagome del linguaggio più nitide, che rende una possibilità di visione più precisa: la notte “ammanta di stelle” ma anche “succhia il sangue e le idee”. È una dicotomia temporale, giorno e notte, e una dicotomia affettiva, amore e odio per la notte, che rifrange la dualità, anzi la scissione, di una autrice che scrive di sé e dell’altra da sé in un inesauribile rinvio a un altro tempo, “E quando è notte, sempre,/ una tribù di parole mutilate/ cerca asilo nella mia gola,/ perché non cantino loro,/ i funesti, i padroni del silenzio”. “Un giorno torneremo a essere” è la ricerca di un sé perduto in una infanzia sudamericana vissuta in diverse lingue e con radici lontane. La poesia è la conoscenza che deriva dal silenzio, “come una poesia che ha saputo / il silenzio delle cose /parli per non vedermi”, e Pizarnik vive il silenzio come tempo di parola muta in divenire, una parola su cui stendere, e talvolta aggrappare, i propri pensieri in versi perché “Forse le parole sono l’unica cosa che esiste”. Aggrapparsi alle parole per ingannare la vita e far esistere la propria identità, fino alla disfatta: “Non ho più trappole di parole”.
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Alejandra Pizarnik, La figlia dell’insonnia, Milano, Crocetti Editore, 2015