Amabili resti

“Siamo in una casa di vetro, non gettiamo pietre”.
Era la frase con cui mio padre metteva fine a ogni discussione. Un campione della sua esemplare dolenza da disincanto, che poi è il tratto tipico di quella saggezza napoletana scambiata dai più per rassegnazione. La sua era una battuta rubata a un polpettone in tecnicolor, ”Scandalo al sole”.
Non c’era passaggio sul piccolo schermo che non ci vedesse obbligati alla visione. Da piccoli ci conquistava l’aura di turpitudine che avvolgeva la trama. In realtà di pruriginoso c’era ben poco. Ci addormentavamo per l’eccessiva lunghezza del film, e al passaggio successivo eravamo di nuovo lì, certi di aver perso nella visione precedente tutti i dettagli più bollenti.
E’ andata così per anni.

L’ultima volta che ”Scandalo al sole” è stato trasmesso, ci siamo rifiutati di vederlo ancora. Mio padre impassibile ha monopolizzato l’elettrodomestico ed è rimasto lì sulla sedia, un gomito sul tavolo, la mano portata a riempire la faccia emaciata, e la gambe accavallate. Il giorno dopo, la confessione – ciascuno di noi nel chiuso della propria camera da letto si era sciroppato per l’ennesima volta tutto il film.
E ora, da che mio padre non c’è più, ”Scandalo al sole”, con le sue battute a effetto, la perforante melodia della colonna sonora, gli interni di Wright, la faccia a pagnotta di Sandra Dee, le turbolenze emotive e i colori troppo accesi, occupa un posto speciale tra gli ”amabili resti”.

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