Amo il dialetto

Quando il populismo e l’ideologia imperversano, intonazione, cadenza, lessico e dialetto svolgono un ruolo importante nel raccogliere il consenso a fini politici. Negli anni ’70 la sinistra, oggi la destra.
Il politico per rendere più credibili le proprie parole, i propri ragionamenti, utilizza in modo strumentale il dialetto, l’intonazione regionale della voce.
Sa che una parte di popolo non resisterà al richiamo ancestrale delle sonorità che gli sono care, percependo come “genuino” e “veritiero” il messaggio veicolato, anche se privo di fondamento: istintivamente si sintonizzerà sulle sue lunghezze d’onda e sposerà i suoi slogan. Chi ragiona e riflette, avvertirà, invece, come fastidiose e stonate le espressioni dialettali che, in altri contesti e circostanze, tanto ama.
L’uso reazionario del dialetto ha una lunga storia.
Scrive Tullio De Mauro nella Storia linguistica dell’Italia unita: “ Sin dal primo Ottocento numerose sono le testimonianze documentanti la possibilità di una funzione reazionaria del dialetto. Già Foscolo ricorda come nei municipi del settentrione chi avesse osato tentare di parlare italiano sarebbe stato colpito dalla derisione del “bel mondo” conservatore. … Era appunto in dialetto il canto della reazione antigiacobina e antidemocratica che travolse i patrioti napoletani del ’99:

A lu suon de la gran casce
Viva viva lu popule vasce
….
A lu suon de li violine
Sembe morte a Giacubbine!

Il fascismo, che si propose di disciplinare l’intero repertorio linguistico italiano, ebbe invece un’avversione per il dialetto e tentò, senza riuscirci, con una serie di provvedimenti di limitarne l’uso. Il dialetto è amato e radicato in tutte le fasce sociali, i genitori lo parlano in casa insegnandolo ai figli, scrittori e poeti lo utilizzano nelle proprie opere, per la potenza espressiva che possiede. E’ un patrimonio da conservare, da tramandare, da proteggere, non da usare in modo strumentale o da cancellare.

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