La nuca dell’uomo e quella del mulo penzolano. Per gran parte del tragitto seguono una sola andatura. Poi il sentiero si fa irto, una sfoglia friabile sulla roccia, e il mulo si impunta, recalcitra. L’uomo lo batte sull’anca, senza rabbia. Ha la stessa rassegnata indolenza con cui punta il bastone al suolo, quando il bastone cessa di essere un’arma. Distolgo lo sguardo, rifuggo da ogni possibile pietà verso la bestia, che non ha la nobiltà del cavallo e che sopporta remissivo il mio peso.
La lingua bianca di pietra si perde tra il verde e sbuca in alto, aguzza: la cima dell’Epomeo si staglia contro il celeste smagliante come una promessa ancora troppo lontana. L’afa ha la consistenza della polvere che cade dalle pareti scoscese e si solleva faticosamente in sbuffi. Allento il colletto della camicia, il pollice struscia sul velo di sudore.
Sul ciglio, poco discosto, il dio mi appare: distinguo le scapole che sporgono per lo sforzo della postura, il dorso della mano sul fianco, la gamba piegata di lato. In vigile attesa, Apollo ha fissato la preda. Potrebbe essere una fanciulla del posto, di quelle dai denti bianchissimi, da cogliere nell’attimo, così pericolosamente contiguo all’eterno, prima che ella sfiorisca per sempre, come sua madre, come tutte le madri.
L’uomo che conduce il mulo urla qualcosa contro il dio – anch’egli lo vede e come me si stupisce – e il dio si volta di scatto. E’ un giovinetto che ci saetta con gli occhi vispi, le braghe trattenute sull’anca da una mano, mentre l’altra tiene il sesso sospeso su una pozza di urina. L’uomo raccoglie una pietra e gliela lancia. Il giovinetto la scansa e sparisce in una risata, la risata adolescente di Dioniso. Come sempre, il tragico è maschera del comico e viceversa. M’immagino il giovinetto caduto riverso e sanguinante in uno dei burroni vertiginosi che si spalancano d’improvviso, nuovo cibo per bestie.
Quando giungiamo in cima il sole è già alto, abbagliante. Sul sagrato della chiesetta scavata nella rupe, ci offrono un bicchiere di vino. Qualcuno canta, il biascichio di una lingua perduta, o forse è solo il belare lagnoso, il ditirambo osceno di un gregge di capre.
L’uomo mi allunga una mano, lo sguardo basso, mentre accedo al punto più alto. Ora tutto danza: la linea di costa, le nuvole lontane, le striature sul mare.
L’isola potrebbe, danzando, crollare su se stessa e rinascere ancora, ogni volta uguale a se stessa, perché in nessun altro modo saprei concepirla se non nella forma in cui ora essa si manifesta, Ischia.
Sul ciglio, poco discosto, il dio mi appare: distinguo le scapole che sporgono per lo sforzo della postura, il dorso della mano sul fianco, la gamba piegata di lato. In vigile attesa, Apollo ha fissato la preda. Potrebbe essere una fanciulla del posto, di quelle dai denti bianchissimi, da cogliere nell’attimo, così pericolosamente contiguo all’eterno, prima che ella sfiorisca per sempre, come sua madre, come tutte le madri.
L’uomo che conduce il mulo urla qualcosa contro il dio – anch’egli lo vede e come me si stupisce – e il dio si volta di scatto. E’ un giovinetto che ci saetta con gli occhi vispi, le braghe trattenute sull’anca da una mano, mentre l’altra tiene il sesso sospeso su una pozza di urina. L’uomo raccoglie una pietra e gliela lancia. Il giovinetto la scansa e sparisce in una risata, la risata adolescente di Dioniso. Come sempre, il tragico è maschera del comico e viceversa. M’immagino il giovinetto caduto riverso e sanguinante in uno dei burroni vertiginosi che si spalancano d’improvviso, nuovo cibo per bestie.
Quando giungiamo in cima il sole è già alto, abbagliante. Sul sagrato della chiesetta scavata nella rupe, ci offrono un bicchiere di vino. Qualcuno canta, il biascichio di una lingua perduta, o forse è solo il belare lagnoso, il ditirambo osceno di un gregge di capre.
L’uomo mi allunga una mano, lo sguardo basso, mentre accedo al punto più alto. Ora tutto danza: la linea di costa, le nuvole lontane, le striature sul mare.
L’isola potrebbe, danzando, crollare su se stessa e rinascere ancora, ogni volta uguale a se stessa, perché in nessun altro modo saprei concepirla se non nella forma in cui ora essa si manifesta, Ischia.
Durante il suo soggiorno a Sorrento, probabilmente Friedrich Nietzsche visitò l’Isola di Ischia. Della sua permanenza restano le tracce in poche righe, misteriose e suggestive.
“Il destino di Ischia mi ha scosso sempre di più
e, a parte ciò che riguarda tutti, c’è qualcosa
che mi tocca personalmente in modo particolare e angoscioso.
Quest’isola aveva afferrato tutti i miei sensi…
Appena ho finito di scrivere l’isola crolla su se stessa”.
e, a parte ciò che riguarda tutti, c’è qualcosa
che mi tocca personalmente in modo particolare e angoscioso.
Quest’isola aveva afferrato tutti i miei sensi…
Appena ho finito di scrivere l’isola crolla su se stessa”.