Anche George ogni tanto si addormentava

C’è nebbia, sopra L.A…Così inizia una canzone dei Beatles, inserita nell’album “Magical Mystery Tour”, del 1967. E’ “Blue Jay Way”, pezzo tipicamente harrisoniano periodo mistico-indiano.
Quando arrivava “Blue Jay Way” l’ascolto del vinile era finito, e l’atmosfera allegra e bislacca, più che magica, del disco si stemperava nelle note avvolgenti e ipnotiche di questo brano onirico, evocativo di misteriose trascendenze.
Ma c’è un però.
A cinquant’anni di distanza è lecito prendersi una piccola rivincita, nell’ambito del tremendo complesso d’inferiorità che ha afflitto la mia generazione nei confronti della musica pop-rock anglosassone. Noi, ancora (e tuttora) legati alla melodia, al testo in rima baciata cuore-amore-dolore e masticando pochino l’ inglese, immaginavamo ogni testo degli dei albionici come una poesia sublime, i cui significati reconditi si perdevano nella maledetta, arretrata ignoranza italiana.
“C’è nebbia, sopra L.A., i miei amici hanno sbagliato strada, dicono che stanno per arrivare ma invece si sono persi. Non fate tardi, non fate tardi oppure mi addormento. Presto sarà l’alba e io sono qui ancora che li aspetto, in Blue Jay Way”
Tutti i discorsi su questa “J” blu arcana, che vedevamo ingenuamente risplendere nella nebbia di Los Angeles, sorta di segnale guida esoterico per le anime perdute, era solo una strada. Una strada per ricconi californiani, piena di ville bianche con piscina ed enormi vetrate affacciate sulle luci reticolari della città degli Angeli, dove George, come minimo un po’ fumato, ingannava l’attesa dei compagni di bagordi pizzicando il sitar in do maggiore, senza mai abbandonare questa nota mesmerica.
Il risultato sarebbe diventato, senza nemmeno troppa fantasia nel titolo, “Blue Jay Way” e intere generazioni avrebbero idealizzato questo misero testo di ordinaria noia urbana elevandolo al rango di messaggio medianico, oscuro ma pregno di significati allusivi da decifrare, per la salvezza dell’anima, nei secoli dei secoli.

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