Molti anni fa c’era in Tv un programma bizzarro e seguitissimo. Si chiamava “Giochi senza Frontiere” ed era una specie di anticipazione della difficile unità europea che negli anni si sarebbe faticosamente andata formando. Gli abitanti delle città di provincia di tutto il vecchio continente si sfidavano in improbabili gare di varia abilità, quasi sempre comportanti ruzzoloni in acqua o analoghi esilaranti esiti, fino alla gloria nazionale della vittoria. Il grande Peter Gabriel fu chiamato a scriverne la sigla, e fu un capolavoro: “Games without Frontiers, war without tears”, recitava il ritornello, lo ricordo bene.
Quella trasmissione non c’è più, forse travolta da beghe e sovranismi alla moda. C’è invece ancora la vecchia Coppa dei Campioni di calcio, che oggi si chiama Champion’s League ed è diventato anche un grande business che muove miliardi di euro.
Sabato sera è andata in scena, a Kiev, la finale di quest’anno, tra Real Madrid e Liverpool, ed è stata una partita di quelle che restano nella storia del calcio. Non per la bellezza o la spettacolarità del gioco espresso, però. Si sa, le finali sono sempre attanagliate dalla tensione e la paura di perdere finisce per prevalere sullo spettacolo. Cosa è successo allora, di tanto indimenticabile? Chiedetelo a Mohamed Salah, a Gareth Bale e, soprattutto, a Loris Karius, rispettivamente attaccante del Liverpool, attaccante del Real Madrid, portiere del Liverpool.
Il primo, imprendibile folletto egiziano che Roma giallorossa conosce molto bene, era l’incubo dei madrileni. I quali, per toglierselo subito di torno, hanno incaricato il fortissimo terzino Sergio Ramos di abbatterlo al suolo con una presa da judoka molto cattivo. Le prime lacrime della finale sono di questo atleta dagli occhi buoni, costretto ad uscire affranto, con una spalla fuori posto. Pensate che alle elezioni egiziane Salah aveva ricevuto, senza essere neanche lontanamente candidato ad alcunchè, più di un milione di voti. Potrebbe saltare i mondiali della sua consacrazione, e allora sì che l’Egitto verserebbe lacrime amarissime.
Gareth Bale non ha niente da piangere: ha segnato i due gol che hanno deciso la partita. Uno in rovesciata, il sogno proibito di ogni essere umano di sesso maschile dai 6 ai 90 anni di età; l’altro con un tiraccio di quelli che una volta si definivano “di alleggerimento”, e qui entrano in scena le lacrime tedesche.
Il Liverpool ha un portiere teutonico, di nome Loris Karius. Un ragazzone biondo, nativo dell’incantevole Biberach, paesino del Baden-Wurtenberg dove, per la cronaca, nella piazza principale campeggia un monumento alla stupidità umana, in forma di asino bronzeo. Karius non è incappato in una semplice papera: ne ha commesse due, sesquipedali, nella stessa partita che, per sua somma disgrazia, era la finale di Champion’s League.
La sua vergogna, le sue lacrime irrefrenabili dopo il triplice fischio dell’arbitro che ne decretava l’avvio al ludibrio mondiale sono l’immagine più corrosiva e crudele dello spirito che anima lo sport. Perfino i compagni, che solitamente in questi casi si distinguono per solidarietà professionale, hanno abbandonato il povero Loris, responsabile della disfatta, a vagare per il campo con il volto nascosto dalla maglietta, che immaginiamo fradicia di pianto.
Solo Gareth Bale, il carnefice, gli si è avvicinato un attimo, ad offrire allo sventurato un briciolo di compassione, dall’alto della magnanimità del vincitore. Una pacca sulle spalle e via.
Giochi europei, giochi senza frontiere, guerre senza lacrime. Non vale più ormai, almeno per il calcio. E tutto sommato, va bene così.
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