Angelica, ti ho rivista, dopo otto anni ti ho rivista. Il tempo ha avuto reverenza del tuo splendore, che se hai coltivato è stato con mano saggia e leggera. Bella, persino più bella di quando ti ho incontrato, ed eri pallida, stretta da un’ansia senza radice, sigarette e unghie morse, cipollina in cima alla nuca, gambe di gazzella. Nel corridoio della Cattolica, attendendo l’orale di ammissione alla Scuola di giornalismo, a me smarrita provinciale eri parsa una creatura scesa da un pianeta superiore, centrifugato di armonia, la voce pastosa di fumatrice come un canto di sirena. Un nome che non poteva essere altro, celestiale e tentatore.
Ti ho rivista su uno dei rotocalchi con cui tento di lobotomizzarmi, in notti aguzze come spade. Una festa per l’Expo. Damazze onuste di ori, donne manichino nei colori di grido, l’ultima faccia di Simona Ventura, starlette scosciate. Ma la migliore, quella che si staglia, come sempre eri tu.
Con i tuoi magnifici capelli, ora miele scuro, immensi occhi di crisoprasio, la bocca perfetta nel tuo eterno rosso Guerlain, giacca sartoriale nera, lunghi orecchini e un sorriso di ragazza. Mi è sembrato di afferrare la fragranza di Obsession o forse è già stagione di portare l’acqua di mandorlo, come facevamo nell’isola di lava che mi hai fatto conoscere e amare. E che ho perduto, come te.
Anche il libro con le poesie di Prévert e il tuo «Per sempre» e la vecchia cartolina con la vostra casa candida se li è portati un vento ben più feroce di quello della tua isola.
Irrompevi dilagando, riempivi ambienti, scombinavi esistenze, avvincevi e vincevi, innamoravi e incendiavi odi, facevi scialo di te ma ogni volta le generose fate alla tua culla ti hanno concesso di riprendere la corsa, ancora più lontano, ancora più in alto.
Di tante amputazioni che la sorte mi ha inflitto, la tua assenza resta fra le più sanguinose, c’è voluto uno stupido giornale a ricordarmelo.
Ho dovuto rinunciare alla tua luce, alla tua testa persino più seducente delle tue fattezze e dell’assoluta eleganza, ai tuoi singhiozzi e agli scoppi di risa, ai tuoi figli ─ nipoti per me, né madre né zia ─, alle porzioni di vita e mondo scoperte e ricreate insieme, alla tua geniale ed eccentrica famiglia che mi aveva accolto come “la terza sorella”.
È stato gravoso esserti amica, sfidando chi mi ammoniva contro la tua inaffidabilità. Un mestiere, scomoda e incantata Angelica, pronta a sostenere e avvolgere, capace però di indecifrabili crudeltà che la tua magia riusciva sempre a rappezzare. Ma molto più un dono, dissolto dopo tredici anni, non so neppure da che cosa: un elfo beffardo, la perfidia dei maligni o ─ è più probabile ─ lo scadere del tempo assegnato.
Ho pianto e pianto di rabbiosa impotenza, ma senza riuscire a detestarti, nemmeno quando non ti sei fatta sentire, sapendo che moriva mio padre. Dapprima ti aveva avversata come una sorta di Lucignolo, per finire rapito, al pari di tutti.
Eppure, oggi, ho gioito ammirando il tuo fascino brillare, leggendoti in volto una nuova serenità. Lacerata tra l’orgoglio per la strada percorsa al tuo fianco e il tormento di un “mai più” senza ritorno.
Angelica dell’anima mia.