Casa di Altri
Ingannarci
non dovevi, vita, Casa di Altri.
Quale tristezza nascere stranieri.
“Casa di Altri” di Anna Maria Ortese letta da Anna Toscano
“La scrittura è come un ritmo che serve a calmare, aiuta a sostenere l’orrore di certe emozioni che altrimenti ci distruggerebbero”, disse Anna Maria Ortese in un’intervista. La sua storia ci narra un costante intento di riordinare poesie e fogli, un incessante avere in mente di mettere mano ai propri componimenti: la produzione poetica la accompagnò sempre, in suo aspirare all’arte come compostezza. Il primo sentimento che pervade nel leggere la poesia di Anna Maria Ortese è di fatica, ed è la medesima sensazione che si ha guardando la sua esistenza, dai suoi primi anni fino agli ultimi: fatica di vivere. Se la sua scrittura in prosa – articoli, romanzi, racconti – è stata la sua vita pubblica, quella in poesia è stata la sua esistenza quasi totalmente privata per moltissimi anni: fogli sparsi nei cassetti raccolti con attenzione a ognuno dei suoi innumerevoli traslochi. Questa scrittura poetica occulta ma soprattutto costante e duratura è stata la compagna di vita delle Ortese, libera da qualsiasi immediata preoccupazione di pubblicazione, una dimensione di sfogo e di intimità, uno specchio del sé: una necessità di discorsività, espletamento di emotività, di interiorità e una forte rappresentazione. La sua poesia è una visione frammista di realtà e finzione, di verità e sogno: componimenti tra la veglia e il sonno, in una sorta di rêverie luminosa e al contempo opaca, che illumina ma sfuma la realtà. Una rêverie come illuminazioni, scintillio di istanti, una luce che fa sperare nella notte. Liriche che parlano di elementi naturali, sole, luna, nuvola, cuore, cielo, uccello, stella, come parte di un tutto, testimoni della durezza del vivere, artefici del sogno e della speranza, attori nel palcoscenico della vita. Le domande che compaiono nelle sue poesie sono interrogazioni a se stessa che rimangono sospese nel vuoto, senza alcuna risposta “[…] Che aspettavo? / Com’è finita? […]”, e che conducono a un doloroso sentimento di estraneità, di altro da sé, di iniquità, di ingiustizia, di possibilità di essere presente nel mondo ma solo a lato con la propria storia minore. il dolore di sentirsi parte del mondo nell’estraneità, il dolore di sentire la poesia di Ortese parte di noi stessi: la propria storia minore uguale a quella di molti altri nati nella consapevolezza di esser stranieri a tutto, di esser sempre in Casa di Altri in questa vita.
Anna Maria Ortese, Il mio paese è la notte, 1996, Empirìa, Roma