Antonio, amore mio

I soprannomi che creo attecchiscono, è un’arte che ho preso da te e, dicevate, dal nonno Andrea. Ripenso alle tue associazioni fulminanti, quando di quella mia amica bruttarella sentenziasti «sembra Woody Allen».

E mi tempestano addosso tutti quelli che mi hai ritagliato, in lingua e in dialetto, estemporanei e semifissi: quelli affettuosi, quelli ironici, quelli temprati per sforbiciarmi il cuore. Randagia, e il suo equivalente piemontese gatta rossa; ranòt (ranocchia, per le gambe snelle e il passo saltellante), pasionaria, bolscevica, san Francesco. Bambola parlante era per i momenti di commozione, specie alcolica. Cütargnùn ─ gonnellona ─ tra il tenero e l’indignato: non ti è mai andato giù che per le sottane, come per quasi tutto, non praticassi mezze misure.
Lady Diana, nato da un famigerato tubino lilla in comune con la principessa, corrispondeva a un equivalente umano del poverello di Assisi, la vocazione a calamitare e assistere postulanti, anime perse, afflitti. Quando la ruota è girata, poco più del nulla era ad attendermi: Diana è morta e neppure io sto troppo bene.
E il tuo sarcastico, che in vernacolo suona come un dardo, «donne, poche» agli squilli del mio cellulare. «Qualcuna ha sgarrato» era la spiegazione a gusti e abitudini mediterranei, inconcepibili per la tua indole sabauda. Avrei attinto il libertinaggio dell’ava e la sete di caffè e anarchia dell’ignoto intruso. Tu eri “il Dottore”, una debolezza per cui ti ho irriso fino in fondo, dal basso della mia laurea in Lettere di cui mi rammentavi di continuo l’esiguità, confrontata alla tesi con il pupillo di Einaudi. Così poco valevo, tutti però erano inadeguati ad accostare la creatura che la tua rovinosa educazione emotiva si ostinava a volere angelicata. Mi sono sempre dilettata a figurare le lapidi sotto cui avresti sepolto i miei compagni di viaggio. Compresa quella di uno che bazzico adesso, ma che forse ti sarebbe simpatico perché un po’ ti somiglia ─ segno infallibile della nostra totale pacificazione ─ e poi è bravissimo a destreggiarsi con le caldaie, mentre tu non sapevi cambiare una lampadina. Gli dipano la nostra “saga”, così la chiama, e tocca tradurre l’idioma ancestrale della Bassa che riaffiora: ormai sono scesa a patti anche con quello.
La sera del 25, spegnendo la luce, mi auguravi ancora Buon Natale, forse tu solo intuivi che non mi arrendo al sonno perché è una fine.
2
E io che «amore» nessun uomo ho mai chiamato ma solo una città perduta, amore ho invocato nella camera 3A dell’Humanitas da cui ti hanno poi strappato. Singhiozzavi e urlavi sull’ambulanza, bisbigliarono le infermiere. Ti hanno rinchiuso in un posto d’inferno per ordire l’imbroglio che mi ha sottratto le briciole residue. Anche se poi hai trovato pace in un hospice caritatevole, benedetto dal mio perdono e dalla tua madonnina, portata dalla miscredente; altri avevano altri pensieri. Allora ho imparato l’odio: per te soltanto.
In una nota del vecchio iPhone mi ha morso come serpe annidata la foto della finestra al terzo piano con la frase: «Amore mio che cosa ci hanno fatto? Il tuo dio non ci ha salvati».
Solo lì mi sono accorta che, in contrasto con il fisico massiccio, avevi mani eleganti come la tua grafia. Le avevo guardate senza mai vederle. Ho ricamato piccoli prodigi di misericordia, come convincerti che quell’idiota di assicuratore sbagliava, non avevi perso la patente, era tutto sistemato e l’avresti rinnovata appena uscito. Avremmo fatto un viaggio noi due soli, ora che ero tornata “tua figlia”.
Stai sempre a banchettare, come ti piaceva tanto, quando ti sogno: mi fai rabbia. Ma una mattina mi sei apparso sotto la travata di mattoni rossi, ancora padrone delle terre, della grande casa, di te; con la cappellina della campagna e il nostro sguardo di sbieco a dirmi che tutto sarebbe finito bene.
Resterò funambola fra adorarti e maledirti.
Ma ogni dolore, ogni rabbia, ogni paura, decuplicheranno in perpetuo la tua assenza.

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