Qui a Buenos Aires gli affitti sono cari, soprattutto se non disponi di un garante. Così, come molti stranieri, ho deciso di vivere in un appartamento con altre persone, come negli anni verdi dell’università, con la differenza che gli anni non sono più verdi. Gli argentini lo chiamano departamento compartido. Io, co-housing, così me la posso tirare un casino che sono una consumatrice critica e faccio la decrescita felice.
Il co-housing, rispetto al monolocale, ha i suoi vantaggi: nel mio caso un appartamento enorme, con terrazza perfetta per feste da ottanta persone e la sicurezza che, se sparisco, qualcuno mi cerca.
Capita qualche sera, a quelli che fanno co-housing, di rientrare in compagnia e di restarci – vivaddio – fino alla mattina successiva. Ogni appartamento ha i suoi comandamenti: nel nostro vige la regola di far entrare solo persone conosciute e non raccattate la notte stessa (non per moralismo, ma per la sicurezza di tutti) e che gli ospiti devono appartenere a specie di passo e non nidificatrici, che imporrebbero ai coinquilini convivenze forzate.
Ma c’è anche il lato B della storia. Ovvero, il modo in cui tali specie si relazionano alla fauna autoctona. Ci sono i furtivi, che entrano ed escono alla chetichella, illudendosi di mimetizzarsi con l’arredo e di non essere notati. I finti indifferenti, che salutano stringendo la mano ai presenti con aria professionale, come se fossero lì per venderti una polizza vita, e poi in camera ti chiedono: «Ma avranno capito?». Infine i conviviali, quelli che la mattina dopo si intrattengono con il tuo coinquilino, gli chiedono educatamente se è stato disturbato da qualche rumore e alla fine si piazzano con lui a vedere la partita. E a te tocca cucinare per tutti e due.