Avventura in Scozia

Quell’estate il prof. Russo decise di trascorrere una settimana di vacanza in Scozia. L’idea gli era venuta leggendo di una conferenza internazionale che si sarebbe tenuta a Edimburgo su Robert Louis Stevenson. Era un suo autore preferito, quindi si prenotò sul sito dell’Università che ospitava la conferenza e offriva gli alloggi studenteschi del campus, liberi per l’estate. La Scozia era una meta costosa, ma l’alloggio e la mensa universitaria avevano prezzi ragionevoli per un insegnante di liceo.
Paolo Russo prese un volo all’alba da Milano con scalo a Londra, poi un volo interno per la Scozia. Era già stato a Edimburgo da giovane e, arrivando in città con un taxi Hackney nero, si accorse di quanto era cambiata. Gli antichi palazzi, che ricordava neri di fuliggine per i camini a torba e a carbone, ora splendevano al sole, candidi e marmorei. Il centro universitario era moderno, le camere piccole ma funzionali, e la mensa rifornita di menù Continental. Paolo la trovò affollata di turisti che facevano la fila al self-service per l’ora di pranzo.
I tavoli erano quasi tutti occupati e Paolo trovò posto con un gruppo di americani chiassosi. A testa china mangiò un “meatloaf” con piselli e patate. Di fronte a lui era seduta una gigantessa dalla pelle nero ebano, che ogni tanto lo guardava con grandi occhi spiritati. Paolo provò soggezione, poi paura. La giovane donna aveva intuito i suoi sentimenti perché, quando la guardò di nuovo, lei gli sorrise. Era bellissima.
Alla fine del pranzo la gigantessa si alzò col vassoio e Paolo ebbe modo di osservare le sue forme statuarie, rinchiuse in un vestito estivo a fiori che sembrava scoppiare a ogni giuntura. Era in carne, forse un’atleta, col fondoschiena alto e impertinente, e gambe come colonne doriche. Una donna così, pensò Paolo, poteva ucciderti con uno sguardo, o con un manrovescio.
La conferenza sarebbe iniziata due giorni dopo, quindi Paolo aveva tempo di gironzolare per la città, visitare i vecchi bookshops e rimpinzarsi di libri e “scones”, i panetti rotondi spalmati di burro e marmellata, serviti caldi insieme al tè nei pub di Royal Mile.
Paolo rientrò al campus per cena. Mentre faceva la fila, notò su una bacheca un volantino affisso con l’annuncio di una seduta sciamanica. Incuriosito, prese nota del numero telefonico e dell’indirizzo. Era per il pomeriggio del giorno dopo. “Anch’io l’ho notato” disse una voce femminile dietro di lui. Paolo si voltò e vide la gigantessa che gli sorrideva con un’enorme doppia fila di denti.
“Sarà un ciarlatano?” chiese Paolo sottovoce. La ragazzona si presentò allungando la mano, nera sopra e rosa sotto. “Chiamami Violet”. Paolo le strinse la mano. Violet aveva braccia lunghe e sode, come le gambe, e la sua criniera afro svettava sopra l’insignificante cranio semicalvo di Paolo.
“Il volantino dice che la seduta si svolgerà secondo la tradizione dei Nativi Americani. Ma il nome dello sciamano è scozzese” commentò Paolo, incamminandosi verso il banco del self-service. “Dobbiamo andare a controllare!” rispose Violet imperiosa. Preso posto a un tavolo, l’uno di fronte all’altra, Paolo era eccitato e intimidito dal tono aggressivo della nuova amica. Volle togliersi un dubbio: “Non sei in comitiva con quegli americani?”
“Sì, siamo un gruppo di turisti riuniti dalla stessa agenzia viaggi, ma non ci conosciamo. Durante il volo transatlantico e poi in giro per Londra non abbiamo avuto modo di fare amicizia. Sono tutti bianchi. Anche qui in Europa siete tutti bianchi, e io mi sento l’unica mosca nera”.
Paolo, contento che lei fosse sola, le sorrise. “Allora telefono e prenoto lo sciamano per due”.
La mattina dopo, a colazione, Paolo non trovò il gruppo di americani né Violet. I turisti erano già partiti per le loro escursioni. In passato Paolo aveva visitato il Castello e il Palazzo di Holyrood, quindi si fece portare da un taxi ai piedi del Mound, la collina su cui svetta il colonnato della National Gallery of Scotland. Tra le alte colonne pendevano stendardi azzurri con la scritta: “Le nuvole di Constable”.
Paolo pagò all’ingresso e si perse nelle sale quasi vuote, davanti ai dipinti di John Constable. Erano quadri a olio di grande formato o piccoli schizzi ad acquerello. Vedendoli tutti insieme nelle sale, poi uno dopo l’altro da vicino, Paolo fu vinto dall’amore del pittore per l’aria. Le nuvole erano l’umore volubile del cielo, cui nessuno prestava attenzione, tranne i meteorologi. Erano studi dei movimenti e delle formazioni nuvolose da inserire in quadri di paesaggi campestri. Constable aveva iniziato con questo intento pratico. Poi, tela dopo tela, era successo qualcosa. Le nuvole gli avevano preso la mano. Era ossessionato dallo stato mutevole del cielo. Come altrimenti spiegare la moltitudine di tele con quell’unico soggetto? Se ritrai lo stesso volto di donna per molte volte, ne sei innamorato.
Paolo trascorse la mattina dentro la Galleria, e quando uscì, comprò il pesante catalogo della mostra. Non gli importava non aver visto la casa di Stevenson in Heriot Row, come si era promesso. Aveva la testa leggera, piena di piccole nuvole ariose.
Alla mensa universitaria pranzò da solo, poi andò in camera, a sfogliare il catalogo di Constable. L’appuntamento con lo sciamano era all’ora del tè. Si lavò, indossò un abito caldo e sportivo, e scese ad aspettare nell’atrio. Violet non arrivò, forse bloccata con la comitiva in giro per le Highlands. Paolo attese fino all’ultimo minuto, poi chiamò un taxi e si fece portare nei sobborghi a nord di Edimburgo.
La casa dello sciamano Colin Craig era modesta, ad un sol piano, con un piccolo prato dietro casa. Lo scozzese era un uomo robusto, bella capigliatura nera, sui quarant’anni. La moglie, mingherlina e bionda, servì il tè nello stretto e disadorno soggiorno. Il signor Craig attendeva altri ospiti, che non vennero, e nell’attesa chiese a Paolo perché fosse venuto.
L’italiano disse di non aver mai assistito a una cerimonia sciamanica, ma aveva letto alcuni scrittori Nativi Americani. La loro spiritualità era speciale, lo toccava più della sua incerta fede cattolica. Il signor Craig non sembrò colpito dai nomi degli scrittori che Paolo elencava. Si limitò a commentare: “Non è la parola scritta che ci può portare alla Realtà Separata”.
Paolo riconobbe il titolo di un libro: “La realtà separata di Carlos Castaneda?” “No, no. Lo sciamano non legge libri, legge la natura intorno a sé. Io mi sono formato andando nel West, vivendo con sciamani nativi. Ho anche invitato uno di loro qui in Scozia, e ogni anno riparto per incontrarli”. Paolo involontariamente volse lo sguardo verso la moglie di Colin Craig, e dal suo sguardo remissivo capì che lei subiva la passione del marito e non partiva con lui per le riserve indiane d’America.
Craig pose fine alle chiacchiere e si alzò: “È ora di fare il saluto di ringraziamento al sole che tramonta”. Uscirono sul piccolo prato cinto da un’alta siepe sempreverde. La nebbia era salita con le prime ombre della sera, e Paolo fu contento del suo abito caldo. Si misero in cerchio in tre, restando in piedi, perché la terra era troppo umida per sedersi. Craig era visibilmente deluso, ma si sforzò di fare la sua cerimonia, con frasi in lingua pellerossa, subito tradotte in inglese per l’unico ospite.
Erano frasi semplici, come i canti d’invocazione alla bellezza, all’armonia, che Paolo aveva letto nelle poesie native. Il tramonto in terra scozzese aveva il suo fascino nordico. Le preghiere che Craig recitava volgendosi intorno con le mani aperte a quel cielo grigio e alla siepe verde, erano state ispirate da climi più aridi, da deserti assolati. Che senso aveva il trapianto? Seguì però, e ripeté, i gesti dello sciamano.
Nuvole di piombo solcavano il cielo basso, che incombeva su di loro. Craig rendeva grazie alle nuvole tenebrose. La gratitudine era sincera in un deserto dell’Arizona quanto nel freddo Nord. Gli elementi erano potenti ovunque, sotto qualsiasi cielo.
La cerimonia fu breve, considerato il freddo pungente che saliva dai piedi. Rientrati in casa, Paolo chiese se poteva chiamare un taxi, ma Craig si offrì di riportarlo all’università. Allora Paolo pensò che la loro povera casa rispecchiava la vocazione profonda di Colin, generoso e sconsiderato, che spendeva tutto per quei viaggi nel West, in cerca di visioni. Rimasero in silenzio fino a destinazione. Quando scese dall’auto ringraziandolo, Craig lo salutò con un’esortazione: “Conoscenza diretta, niente libri!”
A cena la comitiva americana non comparve. Forse, stanchi della mensa, erano andati a cena in città. Del resto Paolo era sfinito e infreddolito, non in vena di altre conversazioni nel suo inglese stentato.
La mattina dopo Violet lo aspettava a colazione. Gli aveva riservato un posto al suo tavolo. Era dispiaciuta di avergli dato buca, ma il pullman li aveva portati al Vallo di Adriano e poi a Glasgow, e non erano rientrati fino a tarda sera. Anche quel giorno avevano un programma serrato di viaggio verso il nord della Scozia, ma Violet era disposta a saltarlo.
“No” disse Paolo scrollando la testa. “Anch’io sarò impegnato tutto il giorno con la conferenza su Stevenson. Non perderti una bella escursione per me”.
“Lo sciamano è stato interessante?”
“Umanamente, sì. Ma non mi ha illuminato. Mi ha esortato a mollare la mia passione per i libri!”
Violet lo scrutò coi suoi occhioni neri. “Non abbiamo avuto tempo di conoscerci. Che cosa fai nella vita?” Non volendo sembrare un secchione topo di biblioteca, Paolo mentì: “Sono uno scrittore”.
“Ah, non sei un turista. Non avrei mai pensato che fossi uno scrittore”.
“Perché? Non lo sembro?”
“Mi ero fatta l’idea che fossi un insegnante!” Paolo rimase interdetto, ma non si tradì.
“Non indovinerai mai la mia professione” disse Violet con gli occhi maliziosi. Si avvicinò all’orecchio di Paolo e sussurrò: “Sono una poliziotta!” Attese di vedere l’effetto della rivelazione sulla faccia di Paolo e se ne andò ridendo.
Paolo si avviò verso la sala conferenze convinto di aver fatto centro con Violet. Erano mesi che non aveva relazioni amorose. L’ultima, con una collega di liceo, era stata disastrosa. Allora si era rifugiato, come sempre, nei libri. Pensava di non saperci fare con le donne, di non essere attraente. Ora la prorompente afro-americana era così interessata a lui da voler saltare un’escursione. Lo eccitava l’idea che fosse una poliziotta.
Mentre sfilavano sul palco gli anglisti da prestigiose università inglesi e straniere, Paolo non riusciva a concentrarsi. Vedeva Violet vestita da poliziotta, col cinturone, la pistola, le manette che dondolavano sul suo culo all’insù, e la spogliava lentamente. La gigantessa, feroce come una tigre, lo bloccava, spogliava lui per primo e lo ammanettava a un letto. Paolo si stava eccitando troppo, e cercò di concentrarsi su Stevenson, ma le parole di Craig gli risuonavano in testa: “Conoscenza diretta. Niente libri!”
Ascoltava le noiose relazioni su uno scrittore avventuroso che aveva messo in pratica lo slogan di Craig per tutta la sua breve vita. Pensò allora di mollare la conferenza, anche se l’iscrizione gli era costata una fortuna. Avrebbe chiesto a Violet di unirsi al suo gruppo per i giorni che restavano in Scozia. Lei sarebbe tornata in America e lui in Italia, ma avrebbero vissuto l’avventura finché durava. Poi si disse: “Frena! Stai correndo troppo”.
Attese l’ora di cena con una smania e una noia esistenziale insopportabili. Con altre donne si era fatto ingannare dalla sua immaginazione galoppante, le aveva già portate in albergo, spogliate e possedute, mentre le donne in realtà erano ancora al check-in. Quando si accorgevano che lui aveva saltato le tappe, si ritraevano infastidite. Doveva occultare la sua brama famelica, fingere disinteresse. Oddio, quanto era più facile vivere nei libri!
In sala stavano disquisendo su “Dottor Jekyll e Mister Hyde”. Che argomento appropriato. Paolo aveva di sé l’idea del professorino introverso, represso, ma un brav’uomo, avventuroso solo nelle letture. Ora l’africana aveva tirato fuori la sua Ombra, l’omuncolo lascivo senza freni morali. Anche Paolo avrebbe potuto trasformarsi in Mister Hyde. Più sei represso e più ti scatenerai. Ma non poteva sopraffare la gigantessa. Fantasticava di essere sopraffatto da lei. Forse era un masochista in cerca di dominatrici.
Violet arrivò in sala mensa insieme al suo gruppo. “Siamo distrutti dall’escursione di oggi, ma è stato bellissimo. Siamo stati a Inverness, le brughiere di erica, Lochness, le coste frastagliate, le isole Ebridi. L’isola di Skye è stupenda!”
“Sono contento che tu non abbia saltato questa escursione” mentì Paolo.
“Ma adesso non avremo più tempo per fare conoscenza. Partiamo domattina”.
“Come?” Paolo credette di aver sentito male. Violet lesse il disappunto sul suo viso. Quell’uomo di mezza età era come un libro aperto. Forse si era preso una cotta per lei.
“Abbiamo anticipato la partenza di un giorno. Io devo tornare al lavoro lunedì, a New York”.
“Torni a fare la poliziotta?” disse Paolo, mascherando l’amarezza nella voce.
“Sì. Tu, scrittore, sei sempre in cerca di nuove storie, vero? Ho da raccontartene una che mi è successa, ma andiamo fuori di qui, non voglio che mi sentano parlare del mio lavoro. Si spaventano già perché sono nera e grossa!”
“Tu non sei grossa!” protestò Paolo. “Sei atletica, sei bellissima!”
Violet lo ringraziò col suo sorriso luminoso. Lo prese sottobraccio e uscirono dall’università. Paolo fermò un taxi e chiese all’autista di portarli in un pub caratteristico della città. Il taxi sfrecciò via per vicoli bui e deserti. Salirono per una strada ripida e in cima il taxi si fermò davanti all’insegna di una “Tavern”, il cui ingresso spariva sotto il livello della strada. I due amici discesero i gradini e si trovarono in un pub sotterraneo, col bancone illuminato da lampade a muro. La musica diffusa era celtica. Si sedettero a un tavolino appartato e ordinarono una Guinness per lui e un soft drink per lei. Bevvero in silenzio, assorbendo l’atmosfera del locale affollato di giovani. “I nostri bar sono diversi” disse Violet. “Queste taverne scure sono adatte ai climi freddi”.
Paolo non rispose. Avrebbe voluto prendere il volo per New York con lei, ma la sua stupida illusione era morta. Come se gli avesse letto nel pensiero, Violet scrisse il proprio indirizzo su un sottobicchiere di carta e glielo porse. “Quando capiti a New York, sai dove trovarmi”. Sorpreso, pensando che non tutto era ancora perduto, Paolo si affrettò a scrivere il proprio indirizzo per lei, ma non osò invitarla in Italia. Non voleva che scoprisse chi era lui veramente.
“Un paio d’anni fa, quando pattugliavo Harlem, io e il mio partner ricevemmo una segnalazione. Era agosto, faceva un caldo infernale. Dalla Centrale ci dissero di portare le mascherine. I vicini sentivano arrivare un fetore tremendo da un appartamento, e al portone non rispondeva nessuno. Andammo all’indirizzo e già da fuori si sentiva la puzza. Forzammo la porta e l’odore nauseabondo invase le scale. Trovammo l’appartamento devastato dai ladri. Andammo in cucina, e c’erano resti di cibo sul tavolo, nel lavello e nel frigo, andati a male da giorni, ma il loro odore era diverso da quello di carne avariata che si sentiva dalla strada.
“Mi avviai stanza dopo stanza fino a una camera da letto. Il letto era vuoto, la finestra era chiusa. Andai ad aprirla e scostai una poltrona per passare. Vidi allora la donna accasciata sulla poltrona con la bocca aperta, morta da chissà quanto. Aveva delle spesse calze scure cadute giù fino alle caviglie. Le gambe erano color latte. La guardai in faccia: era una donna nera. Guardai di nuovo le sue gambe bianche. Com’era possibile?
“Chiamai il mio collega e restammo a guardarla, quasi dimentichi del fetore che usciva dal corpo. Alle caviglie non aveva calze collant, era la sua pelle nera caduta giù per il gran caldo. C’erano segni di tagli di coltello sulle gambe e sulle braccia, tagli da difesa. Comunicai al centralino l’omicidio e uscimmo di corsa dalla casa. Mentre cordonavamo la scena del crimine, pensai che il razzismo è proprio assurdo, perché sotto la pelle siamo tutti bianchi”.
Paolo, rinfrancato dalla Guinness, alzò il bicchiere: “Bella storia!”
“Sapevo che ti sarebbe piaciuta. Te la regalo. Puoi usarla, insomma puoi scriverla. Quando l’avrai pubblicata devi spedirmela, o portarmi il tuo libro quando vieni a trovarmi”.
Paolo, che già fantasticava sul viaggio a New York, pensò: sono fregato.

Commento di Franca Quatrini
Sulla base di un forte messaggio ideale, etico e soprattutto umano nasce questo racconto denso di Patrizia Tenda. Il messaggio è questo: sotto il colore della pelle, tanto giudicato, tanto oltraggiato o mitizzato, sotto la copertura data dall’etnia, dalle origini, dalla dimensione naturale, siamo tutti uguali. E già, perché bisogna ancora sottolinearlo, ancora ripeterlo finché prevarrà l’opportunistica ignoranza.
La forte tenuta della scrittura di Patrizia affronta una politematicità, in questo scritto dove tutto è bilanciato perfettamente e certo potrebbe diventare la base di un romanzo. L’ambientazione, dipinta come sempre con perfette pennellate, ci trasporta da Milano in una Scozia rivisitata, una Edimburgo che quasi ci appartiene come se l’avessimo vista tutti. Realismo perfetto. Il viaggiatore è un pallido professore che vive di libri e consuma gli impossibili amori e la sua inappagata libido nel sogno che la lettura concede e nell’esorcizzazione di intime pulsioni e inadempienti comportamenti dettati da inettitudine, in viaggi culturali e nascondimenti dietro conferenze, autori , parole scritte e ascoltate e nella noia. Andare in Scozia è un’avventura come avventurosi sono i romanzi di Stevenson, motivo del suo viaggio. Sempre più annegato nei libri, nelle conferenze, nelle mostre come quella dedicata alle nuvole di Constable. Il tema storico ed esistenziale dell’inettitudine viene esemplato benissimo nei tratti con i quali è descritto il personaggio, incerto e non pronto a cogliere al volo ciò che la sorte offre al suo grigio esistere. Violet, un magnifico esemplare di superdonna nera e quasi bionica. La incontra per caso e timidamente le sorride, preoccupato. Lei lo coglie, apprezza , si offre ad una possibile amicizia. Lui rimanda, fingendo. Lei, la poliziotta è una donna forte, ma dolce. Il femminile prorompente è anche il maschile che lui non ha. Il suo maschile è frettoloso, superficiale, non rispettoso delle tempistiche. Violet glielo insegna e nel salutarlo gli lascia un barlume di speranza. L’essere maschile, pronto ad immaginare già di appropriarsi di un corpo femminile in un qualunque letto di albergo si mostra in tutta la sua inesistente codardia anche, poiché non vuole rivelare la professione di insegnante, celandosi dietro una bugia. E si frega da solo, avendo anche mentito. Quadro chiaro, di una condizione che è talmente frequente da essere quasi normale, riflessa negli occhi sorridenti e spazianti della donna. Nella testimonianza che Violet lascia all’uomo timido e incerto ci sta la scommessa. E lei nera afroamericana fa la denuncia che è la missione di questo testo, sotto la pelle siamo tutti bianchi. Attraverso un racconto di triste crudezza, di un omicidio , si arriva al nucleo della narrazione, la scrittrice spazia tra le tematiche che dagli esordi del ‘900 sono sempre più corroborate da testimonianze letterarie e storiche. La fine di alcuni miti patriarcali si rivela chiara nelle fughe del maschio che di nuovo si cela, questa volta dietro l’alibi della lettura, della cultura. Ma, a denunciarne la viltà, giunge la voce di uno pseudosciamano, che suggerisce la verità alle sovrastrutture, e la realtà alle fantasie. Molti temi dunque si intersecano e animano il complesso racconto, dove si spazia consapevolmente dentro ampie corrispondenze artistiche. Non per nulla aleggiano su tutto le multiformi nuvole di Constable.

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