Banana boat

 

Quando questo extended play (strani dischi a 33 giri ma grandi come un 45, contenenti quattro canzoni) arrivò a casa mia verso l’inizio degli anni sessanta, Harold George Belafonte universalmente conosciuto come Harry, era già una stella di prima grandezza.

La copertina mi colpì subito, semplice e folgorante: un giovane uomo nero, bellissimo in camicia rossa shocking, sorrideva guardando lontano sullo sfondo di un cielo quasi blu. In giallo, la scritta “Belafonte sings of the Caribbean” evocava tutto ciò che di essenziale avremmo trovato all’interno: sole, caldo, musica che ci sembrava allegra e spensierata. Particolare da non trascurare, la piccola cornice bianca, tipica dei prodotti d’epoca RCA, che inglobava l’immagine conferendole un tocco di nobiltà poi ripreso dai furbi Oasis negli anni novanta.

Che “Banana Boat”, o meglio, “Day-o”, fosse l’inno sommesso e disperato dei lavoratori che passavano l’intera notte a scaricare banane da una barca lo avremmo imparato dopo, molto dopo. Allora era solo calypso, il nuovissimo ritmo esotico che dalla lontana Giamaica si era riversato nei night club d’Europa, frequentati dalla gioventù alto borghese o da Totò e Peppino in fuga-trasferta dalle terribili mogli.

Il testo, scandito dalla voce potente, stentorea ma calda, di Belafonte, era in un inglese dai forti accenti centro-americani, pieno di locuzioni “nigger”alla “Via col vento” (“me say day”, “me wan’ go home”, “tally me banana”) e fu replicato, almeno qui da noi in Italia, da mille voci irriverenti che lo storpiavano, trasformandolo in calembour anche grossolani.

D’altra parte, il politically correct non era ancora di moda e certamente non c’era intenzione di offendere niente e nessuno. Solo di gridare gioia di vivere e voglia di ricostruire il continente dopo la grande tragedia, tornando a divertirsi. In fondo anche gli scaricatori di banane attendevano l’alba, la reclamavano gridando il loro “Day-o!” dopo una notte di fatica, rum e ragni velenosi in agguato, senza toni di autentica ribellione.

La coscienza di classe sarebbe arrivata dopo, con Martin Luther King, Malcolm X, Selma e il sangue sparso a Dallas e Memphis. E tutto cambiò.

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