Ci sono due modi per vedere “Barbie”, film della regista Greta Gerwig, entrambi sbagliati.
Il primo è lasciar scorrere le immagini, magnifiche a partire dall’introduzione presa in prestito da 2001 Odissea nello Spazio, per chi se la ricorda. Le bambine, come gli scimmioni di Kubrick, stanche di trastullarsi con bambole di pezza, scoprono Lei, bellissima e perfetta, senza nemmeno bisogno del misterioso monolite nero di cui abbiamo discusso tanto, e il mondo infantile cambia all’improvviso: le bambine di una volta diventano discepole di Barbie, teletrasportate d’ufficio nella modernità. Ed eccoci, noi spettatori, catapultati nella scenografia mirabolante di Barbie Land, quinta dimensione creata da scenografi da Oscar, pronti a bearci di una serie di argute vicende legate alla superbambola e a Ken, suo problematico compagno.
Molto divertente.
Tutto si complica quando il film assume sembianze diverse, molto somiglianti a un complesso tentativo di raccontare l’immaginario secondo volume di Pinocchio, burattino fattosi umano senza prevedere nemmeno un decimo dei grattacapi che comporterà l’affrontare il cosiddetto mondo reale.
E qui inizia il secondo modo di godersi il film, anzi, di rovinarselo con continue illazioni sui significati, palesi o reconditi che siano, della favola diventata trattato socioantropologico, con continue allusioni alla guerra dei sessi che tormenta la nostra epoca.
Tutto molto bello, ma anche tutto sempre più confuso, fino a restituire la netta impressione che gli autori non sappiano più come uscire da una storia che scotta sempre di più.
Naturalmente i protagonisti Margot Robbie e Ryan Goslin sono più che all’altezza del grande spottone ideato dalla Mattel, casa produttrice di Barbie, con scaltra autoironia.
Lasciatemi solo dire, magari in qualità di semplice uomo, che nonostante il chiaro intento femminista del film gli unici momenti di commozione vera li suscita “il povero Ken”, smarrito e finalmente consapevole della sua pochezza: innocuo, bonario e dunque ma sì, simpatico.