Un uomo che corre. Belmondo è un uomo che corre. Comincia a correre in A bout de souffle e non si ferma più. Corre per Rio, Hong Kong, Parigi che brucia. Corre sotto le tese di un Borsalino anni ‘30, con la faccia blu del Bandito delle ore 11, spinto da una droga che si chiama Julie o inseguito da chi vuole distruggere la reputazione del più grande agente segreto del mondo. Corre, corre, corre. Corre come il cinema, perché il cinema non è altro che corsa, anche quando inquadra un uomo morto attraverso l’occhio cinico di una camera fissa. Corre come l’uomo contemporaneo, il cui movimento è in realtà immobilità. Corre come l’uomo moderno, di cui il contemporaneo non è neanche parente: sempre inattuale, proiettato verso un orizzonte che esiste solamente nel suo sguardo. Corre per ottant’anni, lasciandosi dietro donne e amanti, figli e nipoti, un’ischemia cerebrale, ottantaquattro film. E continua a correre con la barba bianca, una gamba che striscia, un cane che lo insegue, la bocca troppo grande, le labbra da burattino, il naso da Cyrano e una dentiera che sembra il colonnato del Bernini. Je vous salue, Bebel, fino all’ultimo respiro.
Jean-Paul Belmondo
Neuilly-sur-Seine, 9 aprile 1933
(Nella foto Jean-Paul Belmondo in Fino all’ultimo respiro, di Jean-Luc Godard)