Io Bice la conoscevo bene. Ero il più piccolo della combriccola, con i cugini e mio fratello passavamo i mesi estivi al mare, nel paese natale dei miei nonni, loro stavano in città per tenere aperto il negozio di frutta e verdura, ci lavoravano anche gli zii. Mio padre, quando morì la mamma, ci affidò ai nonni. Di lui ci arrivarono nel tempo sporadiche notizie. La casa dei nonni era grande e con una enorme veranda, le persiane quasi sempre accostate per tenere la casa in ombra così da mitigare il caldo. Eravamo affidati a lei, Bice, una ragazzona dalla rossa criniera leonina, la risata esplosiva e gli atteggiamenti da compagnone. I suoi fianchi avevano una rotondità quasi perfetta e i chiari seni morbidi, che col sole tendevano al nocciola, avevano la prerogativa di esplodere dal reggiseno del duepezzi. Bice era la quintessenza della femminilità e nel mio cuore bambino era tutto ciò che conoscevo del femminile. Non certo la nonna, matriarca di una famiglia dipendente e squinternata che a me sembrava vecchissima e quindi antica, non la zia, una svampita poco pratica che mi sbacciucchiava lacrimando della mia condizione di orfano né tantomeno la cugina Lucia che, in quanto femmina adolescente, nella mia classifica della tolleranza era pari a zero. I pranzi dopo la spiaggia, attorno alla tavolata e serviti dalla vecchia domestica, erano tumultuosi perché ero bersaglio dello scherno di mio fratello grande che mi chiamava piscialetto e mi tirava schicchere dietro l’orecchio. Io finivo per lanciargli cibo o acqua e lui m’inseguiva attorno al tavolo cercando di rifilarmi più calci possibili sinché Bice non lo afferrava per la collottola e lo spediva insieme a tutti noi a fare il riposino pomeridiano, momento inutile e odioso che avrei volentieri trascorso altrove. Alla pozza vicino alle rocce, per esempio, dove migliaia di animaletti acquatici vagavano nel caldo liquido e che io immaginavo come un’indaffarata cittadina con i suoi sindaco assessori e polizia a mantenere l’ordine e la guida dell’apparente caos. Questi odiosi pomeriggi, nella penombra della mia camera li passavo ad ascoltare i brussii e i ciangottii intorno. Spesso dalla camera di Bice si sentivano risatine soffocate e sospiri, altre volte dei rumori ritmici ai quali non sapevo dare una spiegazione. Alle volte il trambusto si trasformava in uno scalpiccio come di fuga, porte sbattute e la forte risata argentina di Bice. Sorridevo anch’io, allora, se Bice rideva niente poteva andare storto. Fu in un pomeriggio di questi, in cui la fuga e la porta sbattuta mi fecero alzare, che sbirciai alla porta semichiusa della stanza di Bice, la vidi affacciata alla finestra con i raggi del sole che le filtravano fra i capelli e le facevano brillare la pelle nuda, la curvatura dell’asse terrestre dei suoi fianchi che sporgeva per inseguire con lo sguardo il fuggitivo di cui non conoscevo né forma né nome. Si voltò e mi guardò sorpresa ma con un sorriso malizioso mi fece l’occhiolino. Le mie guance si fecero roventi, quel che vidi fu per me una rivelazione e una sorpresa, allora così sono fatte le femmine, mi dissi. Il suo ventre scendeva verso il biancore delle cosce dove, fra un ciuffo di fulva peluria, si materializzava un piccolo pene roseo. Io Bice la conoscevo bene e l’ho amata, sono passati cinquant’anni dal nostro matrimonio. Passo i pomeriggi a pensarla, qui, davanti alla tomba che ci accoglierà entrambi, lei mi ha solo preceduto.