Ricordate quella canzone? Capelloni, roba di cinquant’anni fa, eh. Però scommetto che molti hanno ancora in testa il ritornello, che faceva “Bisogna saper per-de-re!” I Rokes, Sanremo 1967, in coppia con Lucio Dalla, oh yeah.
Focalizziamoci sul titolo, che a mio parere ha oggi una doppia valenza politica, col senno di poi. Da un lato, prendere atto che libere, democratiche elezioni hanno portato l’Italia ad esprimere il governo che ci governa, costituito da curiosi personaggi di nome Salvini, Di Maio, più alcuni di cui si ignorava totalmente l’esistenza: parlo addirittura del premier in carica Giuseppe Conte.
Ma la maggioranza sembra soddisfatta dell’operato di questa compagine, dunque i sorrisetti sprezzanti possono (e in qualche modo devono) rientrare nella loro sede naturale, increspando le sdegnose labbra tutt’al più in un’impercettibile smorfietta.
Caccia al migrante, ratifica del taglio (già varato in precedenza, ma che importa) dei vitalizi agli ex parlamentari, promesse di elargizioni pecuniarie al popolo senza grandi distinzioni. Niente piani industriali, niente investimenti per il futuro, a noi piace così: pochi, maledetti e subito (Anche se probabilmente nulla di tutto ciò si concretizzerà nei termini sbandierati).Per domani “beato chi c’ha un occhio”, diceva mia nonna, e i nipoti italiani, memori del saggio insegnamento, hanno votato e hanno vinto.
Ma c’è una seconda valenza, nel ritornello dei capelloni, si diceva.
La famigerata frase, per assonanza, ne ricorda paurosamente un’altra, almeno a me.
“Bisogna saper ven-de-re!” Ecco il nocciolo, l’essenza della questione. Nella gara senza quartiere a criticare il capitalismo, responsabile di ogni nefandezza compresa quella di non aver finora inventato niente di meglio, sta prevalendo la logica più bieca, quella davvero alla base della civiltà basata sul mercato.
Già, perché a ben vedere sembra proprio che chi governa si lasci a sua volta governare da una sola, rozza linea guida: mettere in pratica ciò che la maggioranza (una volta silenziosa) confusamente esprime. Sui socialnetwork, per lo più, perché le piazze si riempiono ormai solo per l’arrivo di Ronaldo o i concerti rock venduti e comprati a caro prezzo. Venduti, appunto. Dunque, strisciando strisciando, è passato un nuovo concetto di democrazia. Lo vuole il popolo, noi lo facciamo (o diciamo che sarà fatto), tutto è al suo posto; la democrazia trionfa sempre, in tempo reale, per qualsiasi scelta o decisione.
L’evoluzione di questo concetto prevede poi, in modo scoperto, l’individuazione “on line” (quale vecchio arnese oserebbe contestare le magiche parolette) di sogni e bisogni popolari. Un click e via, si fa. Si realizza. La felicità non più in un battito d’ali, magari della farfalla brasiliana che ripercuote i suoi effetti in tutto il mondo, ma in un battito di tastiera. Poco importa se a cliccare sono in dieci, cento, centomila. Lo hanno detto, si fa. Incontestabile. Perfetto.
Si fa, ma non si dice, diceva un’altra canzone, questa vecchissima. Ora va di moda la versione rovesciata: Si dice, ma non si fa.
Ma allora cos’è che fa funzionare tutto questo teatrino? Sempre quel maledetto verbo capitalista: vendere.
In questo nuovo scenario globale, nel quale noi italiani siamo come sempre all’avanguardia, diventa, va da sé, essenziale vendere la cosa più importante di tutte: le opinioni. “Ora che il tuo giornale chiude, che fai?” sussurra livido uno dei nuovi capi al giornalista di parere diverso. Già, che fai? Taci. La tua opinione non si vende più, caro mio. Rivolgiti al web, la magica piazza di tutti. Se vuoi, ti offro un posto nel nuovo mondo dell’informazione. Io, nuovo capo del nuovo mondo, vengo da lì, ma mica da un giornale, noioso e supponente nella sua pretesa di fare, talvolta, cultura (orrore!). Io vengo dal futuro, quel futuro che la cultura, la vostra cultura ci aveva indicato nella prima metà del secolo scorso, per mano di un grande scrittore di nome George Orwell.
Vengo dal Grande Fratello.