E timbratelo pure, il cartellino di Blade Runner 2049. Non saranno comunque soldi buttati, perché lo sforzo produttivo c’è tutto, dagli sceneggiatori (che immaginiamo chiusi in stanze fumose per anni, alla ricerca di idee che potessero giustificare l’impresa) agli effetti speciali, al regista ed agli attori, tesi nello sforzo inumano di costruire qualcosa che fosse all’altezza del mito.
Naturalmente, era impossibile.
Dunque cerchiamo di giudicare questo prodotto per quello che è, senza lasciarci prendere troppo dalla nostalgia canaglia dei bei vecchi tempi.
Il film, lento e maestoso, ruota intorno ad un’unica idea, che ovviamente non posso rivelare qui ma che è, in tutta evidenza, il risultato di uno sforzo (ammirevole, per carità) che ha ben poco di letterario e quasi tutto di business hollywoodiano, sia pure di serie A.
Aridanga, direte voi. Ma non si doveva giudicare il film senza pensare al suo glorioso antenato? Sì, giusto. Il fatto è che vedendo Blade Runner 2049 mi sono annoiato. Si direbbe che i realizzatori dell’opera abbiano fatto di tutto per costruire un film nuovo, sorprendente, vibrante di invenzioni stimolanti. Ma alla fine abbiano fallito il bersaglio partorendo, passatemi la battuta, un replicante costantemente alla ricerca del padre, senza riuscire, freudianamente, ad ucciderlo.
Le atmosfere cupe, cifra stilistica dell’originale, sono state dilatate allo spasimo ma mai davvero eguagliate o superate. Una citazione ossessiva e magniloquente, adatta forse a soddisfare i palati di chi nel 1982 non era nato o era troppo piccolo per delirare di goduria sul dramma degli androidi alle prese con sogni artificiali. Non credo però che le giovani generazioni possano apprezzare più di tanto, al di là dei milioni profusi, una storia che azzarda, con una buona dose di presunzione, la delicata convivenza tra cassetta e dense (ma pasticciate) pretese intellettuali. Cioè, per l’appunto, il miracolo riuscito nel primo film.
Ryan Gosling è bravo, anche se la sua maschera impenetrabile fa sempre pensare alla frase, attribuita a Sergio Leone, sulle due espressioni di Clint Eastwood (con e senza cappello), mentre Harrison Ford sembra ormai specializzato nella parte del vecchietto da carrambata televisiva, stavolta assai caciarona a causa di un finale improvvisamente ben poco in linea col tono quasi ieratico fino a quel momento sfoggiato dal film.
Insomma, da vedere anche se discutibile, come dicevano in parrocchia. D’altra parte lo sappiamo: i replicanti non sono mai al livello degli originali e lo straziante monologo di Rutger Hauer, l’androide Batty ormai prossimo alla morte del primo Blade Runner vale da solo, in partenza, tutti i sequel possibili e immaginabili.
E basta.