PORTARE la decrepitezza come un fiore. O come
una corona. È invidiabile l’autunno, la sicura e
bella dignità con la quale si stendono per terra le
foglie degli alberi.
È invidiabile l’inverno di quelle latitudini dove la
neve e il silenzio somigliano alla saggezza che ci
seduce per la sua assenza d’ombra.
Blanca Varela letta da Anna Toscano
Blanca Varela scrive poesie molto diverse tra loro, alcune molto liriche, altre in cui il verso confina con la prosa, certune sconfinano nella saggistica, talvolta certe sono quasi epigrafi. È una poesia che sempre si trasforma in un canto: canta qualcosa senza curarsi del tempo e del luogo, senza collocarsi in un presente o in un quotidiano, Blanca canta per proteggersi dalla vita, per irridere la vita con la poesia e toglierle così peso, alleggerirla, sfumarla “gioca con la terra/ come con una palla / falla girare /scàgliala / falla scoppiare / non è che questo la terra/ tu nel giardino /mio portiere mio spaventapasseri / mio attila / mio bimbo […]”. L’assenza di tempo, e la presenza di un silenzio costante, par vibrare a ogni verso: il dettaglio domestico scrolla il lettore di fronte a una incantata eternità “il caffè sarà eterno / e il sole eterno / se non ti muovi / se non ti svegli / se non giri la pagina / nella tua piccola cucina / di fronte alla mia finestra”. È una poesia che non chiude gli occhi nemmeno contro sole, anzi cerca di acuire la vista per vedere tutto, quasi spinta da un oltre che cerca quiete, “Anche la disperazione richiede un certo ordine”, dove neve e silenzio assomiglino alla saggezza e l’ombra seduca perché le poesie sono “Oggetti della morte. Eterna immobilità / della morte/. […] /Poesia. Silenzioso gergo del cuore”.