Mi svegliai da sogni inquieti. Fasci di luce abbaglianti e rumori secchi, come di suole che che schiaffeggiavano il pavimento, avevano popolato i miei incubi. Mi affacciai fuori con circospezione, mi guardai intorno e poi uscii del tutto avvertendo distintamente il cambio di temperatura fra interno ed esterno. Amavo il caldo umido, mi intorpidiva le membra, solitamente abituate a muoversi con scatti repentini e le addormentava dolcemente; prima loro, poi io. Per questa ragione, ogni volta che uscivo, avvertivo un brivido; ma non era fastidioso, si sommava al palpito che mi regalava l’idea di ripercorrere quelle vie che, attraverso una labile scia, mi conducevano a quel che cercavo.
Era così ogni notte e non ricordavo più da quando. Alle primi luci dell’alba mi rinfilavo rapidamente nella mia dimora e solo allora quel pompare sordo di ventricoli che pulsava, carico di terrore ed attesa lungo tutto il mio corpo, rallentava fin quasi a fermarsi. Mi riavvolgeva il tepore di quelle mura e scivolavo nel sonno fino al calare delle tenebre.
Quella notte però mi accorsi subito che c’era qualcosa di diverso; non riuscivo a riafferrare la traccia lasciata quel mattino. Mi avviai così per un nuovo percorso con cautela ma anche eccitazione per la novità. Era capitato più di una volta di dover cambiare traiettoria; qualche volta avevo rischiato grosso ma, più spesso, avevo trovato molto, molto più di quel che mi bastava. E avevo sempre fatto ritorno.
Quel pensiero mi diede coraggio e accelerai. All’improvviso un lampo accecante squarciò il buio che mi circondava. Cercai subito rifugio ma invano. Intorno solo un bianco fosforico e abbacinante. Non vedevo nulla. Un ombra calò su di me; tentai di fuggire approfittando di quel ritaglio oblungo d’oscurità. Lo avevo già fatto altre volte e mi era riuscito.
Ma stavolta era tardi. Udìì distintamente uno scricchiolio di scocca che cedeva. La mia.
Almeno per mia madre ero stato bellissimo.