Blizzard la bufera

Con il consenso delle Autrici pubblichiamo di seguito il racconto di Patrizia Tenda e il commento di Franca Quatrini, convinti di offrire così a chi legge un insieme gradevole e stimolante. La Redazione

C’era una casa sulla collina, vecchia ma ben tenuta, con un frutteto intorno: un enorme fico, un noce alto, un albicocco, un ciliegio, alcuni alberi di mele e di susine, e siepi di noci avellane. Ci abitava una donna anziana, la signora Erminia, che ogni giorno girava nell’orto con una mantellina di lana sulle spalle e ciabatte rosse, per sradicare erbacce e dare acqua alle rose, alle ortensie, ai gigli e alle fragole. La sua chioma bianca risaltava in quel quadrato di verde scuro. Il resto della collina era riarso, senza erba né alberi. La notte era nera, senza lampioni o luci di altre case intorno. Si sentiva solo il ronzio degli insetti e il cinguettio degli uccelli.
Nelle notti d’estate succedeva una cosa strana sulla collina deserta: l’orto di Erminia si illuminava a festa. Centinaia di lucciole vagavano tra gli alberi e sopra l’erba. Venivano solo nel suo frutteto, si ritrovavano tutte lì. Il resto della collina restava al buio, e qualcuno aveva scritto sui giornali che le lucciole erano scomparse.
Erminia non usava concimi chimici e non spruzzava vetriolo sugli alberi, forse per questo gli insetti e gli uccelli venivano a trovarla, ma lei voleva credere che venissero proprio per lei. D’inverno i corvi frugavano col becco sotto la neve e nel tappeto di foglie morte. I passeri facevano il nido nelle sue grondaie e la svegliavano ogni mattina trottando qua e là dentro i canali di scolo del tetto. D’estate le cicale cantavano e, appena faceva buio, attaccavano i grilli.
Una volta, dopo aver raccolto ciliegie con una scala, scendendo mise il piede su qualcosa di morbido e si ritrasse. C’era una palla spinosa, un piccolo riccio nascosto fra l’erba sotto l’albero. Erminia aspettò sulla scala, paziente, mangiando qualche ciliegia, poi vide il riccio spallottolarsi e alzare il muso rosa verso di lei. Erminia trattenne il respiro, e il riccio pian piano tirò fuori le zampe rosa e sparì dietro una siepe. I passeri volavano fra i rami appena le ciliegie maturavano, e lei li guardava dalla finestra senza cacciarli. Un po’ per voi, un po’ per me, pensava.
Non c’erano mai state zanzare sulla collina, poi un’estate all’improvviso invasero l’aria e non la lasciarono più dormire. Fece mettere le zanzariere alle finestre. Tagliava le siepi e l’erba quando era alta, ma per potare gli alberi faceva venire un pensionato che abitava sulla collina di fronte. Erminia ammonticchiava i rami tagliati dentro cassette in un angolo dell’orto, e d’inverno accendeva il camino con quelli. Andava con la sua utilitaria a fare incetta di tronchi d’alberi caduti nei boschi più lontani. Non comprava mai legna dai boscaioli, perché pensava che abbattessero alberi vivi per far soldi. Faceva la spesa in un negozio di alimentari del paese più vicino, sotto la sua collina, a volte ci andava a piedi, ma la risalita le affaticava il cuore. Allora prendeva l’auto. Insomma, era autonoma. Finché un giorno si ammalò.
Venne a visitarla il dottore, e le disse che doveva fare una batteria di esami per il cuore. Le consigliò di farsi ricoverare per i giorni necessari agli accertamenti. Non poteva rischiare un malore mentre guidava l’auto su per i monti. Così, poco prima di Natale, Erminia si ricoverò nell’ospedale della grande città, in pianura. Quando poté tornare a casa, era debolissima, e fece in tempo a fare una scorta di spesa e a portare in casa le cassette di legna da ardere. Poi dovette correre a sdraiarsi sul letto, perché il cuore le batteva così forte che pareva scoppiare. Si addormentò, e quando si riebbe, trovò la casa gelida. Fuori nevicava fitto, e non smise per parecchi giorni. Era un blizzard, dicevano in TV, e consigliavano di non spalare la neve finché non fosse cessato.
Erminia controllava il maltempo dalle finestre. Il paesaggio era trasfigurato. Le siepi e gli alberi erano coperti da strati di neve sempre più alti, i passeri volavano intorno in cerca di cibo, ma non c’era un posto libero dalla neve su cui posarsi. Stavano appollaiati sull’albero di ciliegio, che aveva i rami più sgombri, aspettavano il tramonto del sole, e poi volavano sotto il tetto, a dormire. Erminia sapeva di essere bloccata in casa. Non avrebbe potuto spalare la neve sulle scale fino alla sua auto, e lo spazzaneve non era passato. Stava seduta davanti al camino col fuoco acceso e leggeva. Aveva già pensato a razionare il cibo. Doveva stare a riposo, prendere le medicine e non fare sforzi.
Fuori dalle finestre il blizzard non cessava, nevicava così fitto che si vedeva appena l’orto. Le colline intorno e i monti erano scomparsi. Una mattina Erminia si spaventò aprendo le persiane della finestra in cucina. Era al primo piano, ma la neve aveva quasi raggiunto il davanzale della finestra, poteva toccarla allungando la mano. Gli alberi dell’orto avevano i tronchi sommersi e i rami erano piegati sotto il peso della neve. Corse allora al finestrone del terrazzo, che dava a nord. Lì i venti infuriavano di più, e si era accumulata tanta neve che non riuscì ad aprire la persiana.
Le prese il panico. Se non liberava il terrazzo, il salotto si sarebbe allagato. Doveva almeno arrivare al foro di scolo, per sciogliere il ghiaccio. Forzando la persiana, aprì un piccolo varco per far passare la mano. Prese una bacinella grande di plastica, e la paletta di ferro del camino. Si coprì con la giacca a vento e mise gli scarponi. La paletta passava attraverso l’apertura, ed Erminia con pazienza riempì diverse bacinelle di neve, che poi andava a scaricare nella vasca da bagno. La neve era pesante, così compressa e ghiacciata che non si scioglieva. Passò tutta la mattina a spalare, liberando un varco nel muro compatto di neve alta.
Nel pomeriggio riuscì a passare col corpo attraverso il varco, e tentò di scavare un passaggio verso il parapetto del terrazzo, per poter gettare fuori la neve. Ma il blizzard aveva ripreso con furia, e tutto quel che Erminia spalava le ricadeva in faccia. L’aria era così piena di raffiche nevose da essere irrespirabile. Non si vedeva nulla, solo i vortici bianchi. Dopo una lotta impari, Erminia sentì salire la pressione come un’ubriacatura, e le girò la testa. Si ritirò in fretta dal terrazzo ormai del tutto invaso dalla neve, si tolse gli abiti bagnati ed andò a letto, affranta.
Durante la notte, la svegliò un forte scricchiolio sopra di lei. Sembrava che il tetto cedesse sotto il peso della neve. Si vestì in fretta, tirò giù la scaletta retrattile e salì in soffitta. Guardò dappertutto con l’occhio paranoico in cerca di infiltrazioni o di cedimenti dei mattoni del tetto, ma non vide nulla di allarmante. Tornò a letto, ma non riuscì più a dormire. Quando fu mattino, aprì le persiane in cucina e vide pendere sopra la sua testa delle enormi stalattiti di ghiaccio. Ecco cos’era lo scricchiolio. La neve si scioglieva di giorno e poi gelava di notte. Sul tetto dovevano essersi formate grosse lastre pesanti, che sarebbero scivolate giù.
Allora ricordò di aver parcheggiato l’auto sotto la camera da letto, esposta a nord. Sotto la finestra della camera c’era la tettoia del porticato, coperta di neve alta. Da lì una pesante lastra di ghiaccio sarebbe crollata sulla sua auto! Quando il blizzard cessò, Erminia portò la paletta di ferro in camera, si sedette sul davanzale ghiacciato della finestra e cominciò a sfoltire l’enorme cumulo di neve che minacciava la sua auto. Quando non riuscì più a raggiungere la neve sulla tettoia, tornò a lavorare sul terrazzo. Temeva questi sforzi, ma centellinava le energie, riposandosi appena il cuore si affaticava. Raggiunto il centro del terrazzo, liberato il buco di scolo, vi gettò dentro del sale per non farlo ghiacciare, poi andò in cucina a bere un tè caldo e a godersi il sole, che splendeva sulla campagna innevata per la prima volta dopo giorni di bufera.
Mentre sorseggiava il tè e guardava il telegiornale, sentì uno schianto terribile, il tetto scricchiolò e la casa tremò come per un terremoto. Fuori dalla finestra erano sparite le stalattiti, e la grondaia pendeva giù, spezzata dall’enorme lastra di ghiaccio che era precipitata dal tetto. Aprì la finestra e vide i pezzi del lastrone schiantati sopra le sue rose. Guardò su alla grondaia: dal tetto sporgeva un’altra grossa lastra di ghiaccio. Via via che scivolava giù, la forza del suo peso la spezzava. Erminia corse a prendere la scopa e, sporgendosi sul davanzale, cercò più volte di frantumare la lastra minacciosa, ma la scopa era troppo corta.
Andò allora a vedere lo stato della tettoia dalla finestra della camera. Era tutto rimasto come lo aveva lasciato. La lastra di neve e ghiaccio esposta a nord non prendeva il sole, non si scioglieva. Si consumava pian piano, aggrappata alle tegole.
Tornata in cucina, Erminia si accorse dei danni nell’orto. Le piante non avevano retto il peso di neve ghiacciata e alcuni rami avevano ceduto. Un melo si era spaccato a metà. Appena le strade furono percorribili, chiamò un fabbro per la grondaia. Scoprì così che le tegole del tetto esposto a mezzogiorno, dove le lastre erano precipitate, erano tutte rotte. Il fabbro le sostituì con tegole nuove e le disse: “Per rompere così il tetto, il ghiaccio deve aver fatto un rumore infernale. Non ha avuto paura, qui da sola?”
Erminia annuì e gli chiese se doveva sostituire anche la grondaia. Il fabbro le disse che avrebbe tentato di aggiustarla, inchiodandola di nuovo al tetto. “Ma alla prossima bufera non reggerà.”
“Se ce ne sarà un’altra non reggerò neanch’io, o sarò già partita,” rispose Erminia.
Il fabbro restò in silenzio; pensava che la vecchia intendesse “dipartita”. Ma Erminia stava considerando seriamente di andarsene. Quella casa che tanto aveva amato l’aveva spaventata oltre l’amore, l’aveva minacciata di morte. Non poteva più rischiare un altro inverno sul monte. Doveva vendere e trasferirsi in un appartamentino in città. Nei giorni e nelle notti del blizzard aveva lottato per sopravvivere, ma se avesse avuto un infarto, chi l’avrebbe salvata? La casa sul monte era una trappola ormai. Anni prima, quando era vivo suo padre e zappava in giardino e faceva tutti i lavori con la stessa gioia di Erminia, non aveva mai nevicato così tanto. Ora gli elementi si scatenavano con una furia mai vista. E lei non poteva più spalare la neve, non poteva più lavorare curva nell’orto, portare pesi, tagliar l’erba, raccogliere le foglie cadute. Anche caricare le cassette di legna, accendere il fuoco, liberare il camino dalla cenere, era una fatica che il suo cuore non reggeva più.
Quando la neve nell’orto e le lastre di ghiaccio si furono sciolte, Erminia chiamò Franco, il pensionato che potava gli alberi. Era più vecchio e più basso di lei, ma di una tempra incredibile. Lavorava per ore, instancabile, saliva sugli alberi come un gatto per segare i rami. Franco arrivò e cominciò a girare intorno a casa per controllare i danni. Non era del suo solito umore allegro. Tagliava via i rami senza riguardo. Massacrò il vecchio fico segando rami robusti e sani. Erminia protestò. Poi gli chiese se aveva bisogno della scala per arrivare ai rami alti del noce. “No, signora, taglio solo i rami che posso raggiungere da terra”, le disse rabbuiato. “Mesi fa sono caduto da un albero, e non posso più salire così in alto.”
Erminia si allarmò: “Si è fatto male?”
“Mi sono incrinato due costole, e adesso non posso più sforzarmi come prima.”
“E io che pensavo di chiederle di tagliare anche le siepi e l’erba…”
“Erminia, io sono più anziano di lei, e mi spiace dirglielo, ma non so per quanto tempo ancora potrò venire. Ho già tanto lavoro nei miei campi, e non ce la faccio più”.
Erano arrivati in un angolo a nord della casa, dove era cresciuto da sé un alberello di visciole. La neve aveva spaccato a metà anche quello. Restava in piedi sull’esile tronco e reggeva un solo ramo ormai.
“Questo bisogna tagliarlo tutto, rasente al prato. Fra un po’ d’anni germoglierà di nuovo.”
“No!” gridò Erminia. “Lo lasci com’è! Io non avrò tanti anni per vederlo rinascere.”
“Ma con quello squarcio marcirà alla prima pioggia.”
“Non avete un prodotto per cicatrizzare le ferite?”
Franco sbuffò, poi le disse quale prodotto cercare e in quale negozio in città.
Rimasta sola, Erminia pensò che quei poveri alberi, piantati da suo padre, avevano subìto più traumi di lei. Quanto avrebbero resistito ancora a climi così inclementi?
Scese in città e fece la spesa in un grande supermercato. Era dimagrita durante il blizzard, e fece scorta abbondante di cibo. L’avrebbe portata in casa un po’ alla volta, lasciando in auto i cibi meno deperibili. Poi passò al consorzio agricolo e acquistò un grosso barattolo di mastice per gli alberi. Nel momento più caldo del pomeriggio, scese nell’orto e spalmò il mastice sul moncone di ramo del fico e su altri grossi rami danneggiati. Il fico era il più prolifico del suo frutteto, faceva dei fichi rossi così deliziosi che gli uccelli e gli insetti lo assediavano.
Andò dietro casa dall’alberino di visciole. Era così mutilato che stava su a malapena, con l’unico ramo rimasto, curvato verso terra. Si mise al lavoro come un’infermiera, ricoprendo lo squarcio con più mani di mastice, per rendere la ferita impermeabile alla pioggia. Nei giorni successivi tornò a vedere se il mastice si seccava, e andò a curare anche gli altri alberi, e il melo spaccato a metà. Poi attese la primavera.
Venne il dottore a visitarla, e si allarmò per la magrezza di Erminia, i suoi occhi pesti, incavati, la pressione più alta. Le ordinò una nuova visita dal cardiologo in città, e ricominciarono gli esami e i controlli, e aumentarono le pasticche da prendere. Fu ricoverata per qualche giorno, e uscì più debole di quanto fosse stata prima di entrarci.
Intanto era arrivata all’improvviso la primavera. Quando uscì dall’ospedale, gli alberi erano in fiore, le mimose scoppiavano di giallo dentro i giardini. Sul monte, i suoi alberi sarebbero fioriti più tardi. Arrivò a casa e portò su qualche sacchetto della spesa. Dalla finestra guardò il frutteto, ma nessun albero era sbocciato. I roseti schiacciati dai lastroni del tetto parevano definitivamente morti.
Col cuore pesante, scese a vedere come se la cavava l’alberello di visciole e, sorpresa! quell’unico ramo cadente si era sollevato da terra ed era tutto in fiore.
Erminia guardò incredula il prodigio delle gemme candide e sentì il coraggio del piccolo albero sopravvissuto. Carezzò il tronco leggiadro e monco, e pianse di gioia.

Per il cuore di ErminiaCommento di Franca Quatrini

Non è facile affrontare questo racconto lungo di Patrizia Tenda, questo accurato diario di un forte passaggio esistenziale, di un terremoto reale e psicologico. Di un male di natura e di cuore. Il cuore di Erminia che è il motore di questo piccolo universo, un giardino a metà tra collina e montagna, isolato e unico, un Eden fatto di giorni di lavoro, di ascolto, di vite parallele, la vita umana e quella del luogo, della natura del luogo. Erga kai hemerai diremmo con Esiodo: le opere e I giorni. L’opera ancestrale di chi coltiva il luogo, lo mantiene, ne gode I frutti ma condividendoli con le altre vite del posto.
Erminia, nome di classica risonanza, ci ricorda quella tra I pastori del Tasso, e ci riporta al tema del giardino. Dall’Eden in poi il giardino è sempre stato un luogo salvifico in letteratura, un luogo di ricordi, di purezza, di respiri, ma anche un luogo dove si puo perdere la grazia da dove si puo rischiare di andar via. È incontaminato il giardino di Erminia e lei lo cura rispettandolo, al massimo condivide qualche frutto con gli alrri avventori del luogo, uccelli, insetti. Animaletti di ogni specie come il porcospino che sotto gli aculei disvela il suo cuore rosa.
Erminia erede del terreno e dell’esperienza paterna esiste nel giardino e di questo si compiace, conoscitrice e osservatrice attenta della natura. Ma Erminia è vecchia e le sue chiome sbiancate dal tempo si stagliano nel verde intenso dell’intricato quasi selvaggio luogo ove vive. Ma ha le pantofole rosse, segno di vita di passione. Tra il fiorire di rose e ortensie e il volo degli alati tra i rami, osserva i suoi ciliegi e il suo fico, pianta che è pietra miliare di ogni domus che si rispetti dall’epica a Verga.Il frutto di rami senza vetriolo si spartisce serenamente col passero o il grillo e accendono la notte le lucciole che Pasolini non ritrovava piu.
Ma il blizzard che mai sarebbe dovuto arrivare si scatena su questa oasi serena di vita bucolica e sacra. E tutto la neve ricopre, condensa, cerca di strappare alla vita, al cuore, all’amore. I bianchi capelli si confondono col gelo piu atroce e il cuore si incrina.
Lasciare il giardino, perderlo come gli ultimi eredi del cechoviano giardino dei ciliegi. Li finiva un’epoca, una dimensione sociale, un equilibrio per pochi. Qui finirebbe di battere un cuore, il cuore di Eminia, baluardo d’Amore. E quando tutto sembra finire, e gli alberi morire e appassire le rose e il tetto crollare un mastice comprato giu nel mondo, rimedia a ferite letali. Un mite alberello ancor giovanile ritenuto spacciato da un agricoltore, blandito dalla carezza d’amore si sveglia dal letargo invernale e fiorisce salvando se stesso e, ad Erminia, il cuore.

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