L’asfalto arroventava le ruote dell’aereo, l’ultimo carico era stato concluso. Il comandante si asciugò la fronte e disse qualcosa che nessuno udì perché il rombo dei motori sovrastò ogni cosa. Le facce dei soldati, schierati sulla pista, erano compunte, come solo nei momenti da consegnare alla Storia.
Gli aerei schizzarono uno dopo l’altro e si levarono in volo. S’inclinarono tutti assieme, in stormo, tanti piccoli graffi nel cielo azzurro, sulla distesa di sabbia. L’intrico di linee si aprì scoprendo la trama di strade, i rettangoli delle case, le cupole, il fiume, i muri diroccati qua e là e i vuoti anneriti dal fumo.
La città, dall’alto, era un formicaio. “Sono formiche” s’impose di pensare il pilota per non perdere la concentrazione, “sono formiche che si muovono e corrono in ogni direzione”. Sentì la pancia dell’aereo aprirsi, e sganciò.
Il cielo si annerì, a migliaia precipitarono, per poi aprirsi ad ali spiegate, le bombe “intelligenti”.
Scendevano planando verso migliaia di visi che guardavano con il naso in su, stupiti e speranzosi. Erano volti scavati di uomini, volti velati di donne, volti di bimbi: tutti con gli occhi sgranati e lucidi. Le avventure di D’Artagnan e di Sherazade, di Aladino e di Tom Sawyer, di Ulisse e di Sinbad, pagine e pagine che volavano come uccelli portando parole, racconti, storie sull’antica città di Mosul, dove non si sognava più, dove non si leggeva più, dove i falangisti dell’Isis avevano bruciato tutti i libri.