Monica si è disaffezionata al proprio nome, è stato un processo lento di anni, decenni, ma inesorabile. Nei primi anni Sessanta, rispetto alle inflazionate Donatella, Rossella, Lorella, Simonetta, che portavano in sé una qualche alterazione diminutiva, le pareva un nome piacevolmente neutro, senza affettazione. E per un po’ le è piaciuto davvero, la faceva sentire un’adolescente poco leziosa. C’è stato un momento in cui lo ha percepito elegante, persino circondato da un’aura di santità quando alla scuola elementare le hanno raccontato della madre di Agostino d’Ippona. L’attaccamento, però, non ha retto l’urto del tempo.
Se oggi le fosse consentito di cambiarlo, opterebbe per Nora, un nome bisillabo, incisivo, appena indurito, ma contemporaneamente sonorizzato, dalla vibrante alveolare. Nora ha la velocità di una freccia, fa pensare a traiettorie lineari. Forse non ha la morbidezza del nome sdrucciolo, perde in melodia, ma guadagna in efficacia e risolutezza.
E’ un nome che non tentenna e chi lo indossa non può che avere il passo saldo, muoversi nel mondo con coraggio, accettare il rischio. Avere la forza del polo magnetizzante. Chi calza le scarpe di Nora non zoppica, non vive come Monica il timore di diventare Monca dismettendo una misera vocale.
Nora può fare ciò che Monica avrebbe desiderato e non ha fatto. Suonare con disciplina il pianoforte, studiare recitazione, che bellezza il teatro classico! E ancora, viaggiare, amare liberamente, procreare fiduciosa, mangiare pane e salame. Sì, perché Nora esercita su di sé una blanda pressione salutista, non demonizza gli insaccati, non coltiva patofobie, intrattiene un rapporto amichevole col corpo, è meno incline a essere requisita dalla minaccia della precarietà.
Monica, più vulnerabile e difettosa, non le va a genio; eppure ultimamente Nora la guarda con una benevolenza che sfocia nella simpatia.