Capitan Fantastic

L’altra sera ho visto Captain Fantastic allo spazio Oberdan, che poi sarebbe la cineteca di Milano. La sala è grande, le poltrone, o meglio le sedie, scomode, i film spesso iniziano in ritardo perché “c’erano problemi con la pellicola precedente”. Un po’ come ai cinemini d’oratorio di quando eravamo bambini, e questo fa sì che all’Oberdan, anzi in Oberdan, come dicono a Milano, ti senti in famiglia.
Ma soprattutto il merito dell’Oberdan è che non danno i film doppiati e vedere Viggo Mortensen parlare in italiano proprio non l’avrei sopportato. Io adoro Viggo, quindi sono di parte, ma in questo film credo che abbia raggiunto il paradiso della recitazione.
Ricordo una volta che lo intervistai, si presentò in calzini, senza scarpe. Ridemmo molto della sua “allergia” a ogni tipo di costrizione, immagino dunque che nei panni del tardo hippy Ben si sia trovato perfettamente a suo agio.
Captain Fantastic racconta la storia di una famiglia che vive nei boschi rifiutando totalmente la società dei consumi. Mente e boss di questo progetto di vita alternativa è il visionario capofamiglia, Viggo appunto, che costringe i sei figli a estenuanti allenamenti per irrobustire il corpo e a studi rigorosi per fortificare lo spirito. Un padre padrone a tratti insopportabile, ma a volte tenero e generoso.
Negli occhi dei figli leggi odio, ma anche amore incondizionato. Tutto il film è una sfida, e anche lo spettatore non sa da che parte stare, la razionalità e la banalità della nostra vita quotidiana contro l’utopia e il sogno. Emblematica la scena dove una delle figlie racconta le sue sensazioni sul libro che sta leggendo, Lolita di Nabokov: quello di Humbert è certamente un grande amore, ma lui è certamente un pedofilo. Fa pena, dice la ragazza, ma anche rabbia.
Ecco, il dolore e la gioia che si rispecchiano negli occhi di Viggo Mortensen raccontano la complessità dei rapporti amorosi e famigliari. Un film poco accomodante, che lascia sospeso ogni giudizio, come è giusto che sia.

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