Lunghi tabarri fruscianti, piume dai colori sgargianti e, tuffato in quelle nuvole soffici, un pullulare di ovali delicati, eleganti, inespressivi. Volti glauchi, posticci, coperti di brillantini o vestiti di scorci lagunari dipinti, con pazienza, dai garzoni di bottega. Figure altere che, quasi volando, scandiscono il limitare tra riva e laguna, in perenne posa mistica (ché se non mi mettete sul Gazzettino manco quest’anno, vi faccio vedere io, vi faccio!). E pagliacci, trampolieri improvvisati, Zorri e damine, attempati burloni infilati in costumi settecenteschi vagamente infastiditi da prosaici – Mon Dieu!– teletabbici Ciao-Ciao. E turisti, acrobatici adoratori di souvenir, ammassati lungo le paratie dei ponti, a fare tutti la stessa espressione, la stessa inquadratura, la stessa foto. Globalizzazione carnascialesca? Così è, se vi pare.
Calli strette, traffico asfittico, bombette puzzolenti, coriandoli invadenti, stelle filanti moderne – appiccicose e d’un improbabile verde antinebbia, aria fritta colma di effluvi zuccherini (venexiane o alla crema? Magari galani!), spritz a fiumi e viandanti sbilenchi.
Più del solito, intendo.
Battelli stracarichi, che lasciano a piedi gli indigeni per caricare danarosi, festaioli stranieri all’arrembaggio (tanto, voi scioccherelli rimasti a terra, siete serenissimi per antonomasia, no?!). E serate danzanti, concerti reggae, trombette moleste a tutte l’ore.
Il prossimo anno, a Carnevale, mi trasferisco sul pianeta delle scimmie. In fondo, Venezia è sempre bellissima. Soprattutto di venerdì.