Caro Dario ti scrivo, così mi distraggo un po’.
Mi distraggo dalla marea urlante che già da oggi approfitterà del tuo non esserci più per fare politica faziosa.
Mi distraggo anche dalla lontananza dolorosa che si era creata tra te e me.
Mi distraggo dall’idea che un altro pezzo della mia gioventù se n’è andato.
Un pezzo da novanta, stavolta. Ero davvero piccolo quando la tua formidabile “Canzonissima” del 1962 sfondò il video pudibondo che un altro grande protagonista di quegli anni (andrete a prendere un caffè insieme sulle nuvole?), Ettore Bernabei, aveva preparato per gli italiani sotto tutela democristiana.
Io cantavo a squarciagola la fantastica sigla di quel programma in bianco e nero, che a un certo punto faceva “ …un babbo un poco frivolo, che porta un sacco di canzonette…”. E il babbo, quello mio vero, severo come pochi, si arrabbiava.
Forse perché non gli piaceva nemmeno il coro dell’incipit, che cantava “Popolo del miracolo, miracolo economico, o popolo che volendolo puoi far quel che ti par…”
E poi la deflagrazione, nei disimpegnati anni ottanta, del “Mistero Buffo” che, ci giurerei, è stata la tua autostrada per il Nobel meno atteso e più sorprendente della Storia.
E tante altre cose, sempre dette e scritte con Franca, compagna insostituibile di arte e di vita, col segno indelebile del genio bertoldesco, sempre pronto al pernacchio sonoro, sempre rivolto in direzione del potere.
Caro Dario ti scrivo perché sei stato un grande, qualunque cosa dicessi o pensassi, che si fosse d’accordo o no.
E ti piango