Fato niente! Il Giro d’Italia.

Tappa del 24 maggio da San Vito di Cadore a Vedelago. Quando per la prima volta vidi i fratelli Marangon curiosare intorno alla casa di Villanova pensai agli indigeni che spiano Colombo appena sbarcato a San Salvador. Quelli barattarono oro con specchietti, i Marangon barattarono la nostra amicizia con le loro imprese. Scommettete che Tony beve l’acqua del cesso? E Tony dopo aver tirato la catena, tracannava l’acqua che scorreva nel water. Il più pazzo però era Oscar. Un giorno decise di scendere in bici da Serdes fino in paese senza usare le mani. Neanche in curva. Io, che mi trovavo davanti alla casa, lo vidi arrivare velocissimo, mentre continuava a pedalare per mantenere l’equilibrio. Un mona, uscendo con l’auto da un cortile, s’immise sulla strada senza guardare. Oscar, che volava a non meno di 60 all’ora, avrebbe dovuto mettere le mani sul manubrio. Ovviamente, non lo fece. Frenò con i pedali, provò a scartare l’auto. Sbandò e fu sbalzato dalla sella. Furono le mura della chiesetta di Villanova a fermarlo. Con le braccia e le gambe coperte di sangue, disse: “Fato niente!” Useranno le mani e la testa i girini che affronteranno la tappa da San Vito di Cadore a Vedelago. Centotrentanove chilometri in discesa e 930 metri di dislivello. La statale 51 (che in Crucconia si chiama Alemagna) fino alla città di Tiziano è stretta e con molte curve a gomito dentro i paesi di Vodo, Venas e Peaio. Il Cadore. Quello della valle del Piave fino a Sappada e quello della valle del Boite fino a Cortina. Quello dei miei nonni, di mio padre, il mio. Villanova è una frazione di Borca. Per dieci anni sono stato ospite nella casa che i miei zii (e i loro dieci figli) prendevano in affitto per tre mesi l’anno. La casa, che in realtà era un vecchio albergo con sedici stanze da letto tutte senza bagno, si trova proprio sotto il Pelmo e l’Antelao. I giganti del Cadore. Quando ‘l Pelmo varda la luna le montagne le se raduna, le se parla, le se profuma, le racconta: l’è inamorà. Il sole tramonta dietro il Pelmo e la luna piena sorge a est, dietro l’Antelao. Quando sulla strada è già notte e la luna è alta, l’enrosadira ancora accende ‘l caregon del padreterno. Ho fatto più volte il giro di questo immenso trono. Mi resta la speranza che prima di morire riuscirò a salirvi in cima per guardare più da vicino la luna. Se il Pelmo è un caregon, l’Antelao è il re delle Dolomiti. Si dice che un tempo fosse tra le montagne più alte d’Italia. Il terremoto del 1348 provocò la caduta del versante nord che distrusse il paese di Villalonga. Quella frana remota ne rammenta una vicina. 9 ottobre 1963, 22:30. 270 milioni di metri cubi di roccia si staccano dal monte Toc (contrazione di Patoc che in friulano vuol dire marcio) e precipitano nel lago artificiale creato dalla diga del Vajont. Trenta milioni di metri cubi d’acqua scavalcano la diga (che rimane intatta) e si riversano a valle distruggendo quasi completamente il comune di Longarone e quelli limitrofi. Muoiono 1917 persone. Già venti giorni prima i sensori avevano registrato preoccupanti movimenti della montagna. I tribunali che si occuparanno delle responsabilità, pur condannando alcuni imputati per disastro colposo, non riconosceranno mai la prevedibilità dell’evento. Il giro passerà di qua. A Longarone la discesa non è impegnativa. Sarebbe bello che i ciclisti guardassero alla loro sinistra il muro che resiste. La tappa prosegue nella valle del Piave fino a Belluno. Poi piega verso ovest, affrontando a Cesiomaggiore l’unica salitella della giornata. Lambendo le terre del prosecco di Valdobbiadene, discende tra i colli di Asolo, la città dalla divina Eleonora, e interrompe la sua corsa a Vedelago. Ci sarà sicuramente qualche pazzo che in stile Oscar Marangon cercherà di concludere la tappa in meno di tre ore. Io non glielo consiglio. Ci sono paesaggi da ammirare: i boschi di cembri e di mughi, i boschi di abeti rossi e bianchi, le vigne di glera. Ci sono facce da guardare. Quelle dei cadorini, scolpite nella roccia, come quella del Vecellio in quel suo autoritratto da vecchio. Serio, ombroso, con la febbre negli occhi. Occhi che sembrano guardare oltre la finestra, verso il suo Cadore, le cui cime più alte dicono si possano scorgere perfino da Venezia, nei giorni più limpidi. E ci sono le facce di quelli del Vajont: che chiedono ancora giustizia.

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