Non lo sono sempre stata. A sette anni, davanti alla televisione, mi misi di profilo per guardare Mike e mi venne mal di testa. L’oculista sentenziò: astigmatismo. Cura: orribili occhiali stile La Malfa Ugo. Vidi le forme in sintonia, i contrasti netti e Mike di faccia. Con l’età dello sviluppo, la vista si aggiustò. Cominciai a portar meno gli occhiali e la moda mi permise un modello jolie. A sedici anni mi affrancai del tutto dal separé che indossavo sul naso, tanto ero infelice lo stesso. A diciotto scoprii che potevo ridere anche non vista e vivere a colori. Usai solo gli occhiali da sole fino alla boa dei quaranta ruggenti. Ignorai alcuni segnali, ma poi dovetti decidere se sbagliare il punto di vista o di visione. Mi arresi alla nuova implacabile diagnosi: presbiopia! Affranta dall’evidenza, mi munii di graziosi occhialini, senza appenderli al collo. Conquistai destrezze manuali – con senza, con senza – e, dopo un’estate di scontento, a quarantacinque anni patii l’ennesima disfatta: astigmatismo medio a dx, ipermetropia grave a sn, su entrambi presbiopia galoppante. Ergo: occhiali con lenti progressive giorno e notte. Nel sonno continuai a vederci benissimo.
La terza cosa che faccio la mattina appena sveglia è inforcare gli occhiali e con le lenti fotocromatiche affrontare il buio e la luce.
Prima, le impressioni alla Monet, le luminosità alla Turner, le forme tra El Greco e Modigliani, i lampi alla Kandinsky – mi è caduto, sopraffatto, anche il corpo vitreo – fanno delle mie modeste visioni dei veri capolavori; dopo, constato che ci vedo chiaro, anche se per qualcuno l’essenziale è invisibile agli occhi.