Amos non vede più. Gli occhi suoi brillano ancora, sotto il colore tenue di un celeste invecchiato, annacquato. Luce ama il suo camminare lento per la casa, il toccare sfarfallando le mani pallide, allungandole nel vuoto. Luce gli sorride e sa che a lui giunge il sentore delle sue labbra schiuse. A volte si guardano, l’una di fronte all’altro, eretti, le braccia sulle spalle e fermi. In un gioco di silenzi e anche di parole, quelle che si dicono fra loro in ogni momento.
Amos vuole uscire ogni tanto, sentire l’aria sugli occhi, fredda e pungente e che li fa rivivere. Luce lo trascina e ha un passo veloce, col desiderio di portarlo ovunque. Lui ha invece una grazia nel camminare, come se dovesse spiccare il volo col tremito delle ali. Sa che la città può essere tutta sua, nel ricordo di ciò che era stata per lui, nel bagliore e nella bellezza, nel rumore che adesso sembra lo sovrasti sempre di più. Il senso a sopperire, l’odore di marcio e di vita.
Luce gli parla, gli stringe la mano e poi il braccio, lo conduce per strade nascoste e a lui sconosciute. E poi d’un tratto lo bacia. E Amos ha un sussulto. Una piccola paura. Ride poi, la cerca fra i capelli, allunga il collo e non la trova e ha il timore di restare solo. Luce allora poggia la testa sulla sua spalla per un attimo e attende. Lui fa un passo, senza direzione. Ambedue hanno perso qualcosa, lo sprazzo necessario, forse, forse la fede che fa stare in piedi e che fa delle cose tutte la ragione del vivere.
Un clacson li risveglia, Luce porta Amos in un vicolo stretto e buio e gli dice che sono su un viale alberato, poi sente che piangerà in silenzio ma Amos può sentire il rumore delle sue lacrime. Ed è come felice, finalmente.