Cent’anni di Kafka

Franz Kafka muore il 3 giugno 1924. Cento anni fa. Non li dimostra proprio, e non solo perché è morto a 41 anni. C’è qualcosa in lui, nella sua opera, che risuona e vibra ancora nella nostra coscienza come un gong picchiato con forza.
Ho sempre pensato con sollievo che Kafka è morto appena in tempo per non subire la deportazione nei campi di sterminio. Ma Franz viveva già in un confino. Dice Canetti che fin da giovane Kafka si è sentito uno straniero, anche in famiglia. “I miei parenti mi annoiano fino in fondo all’anima”. Il lavoro burocratico di mediatore assicurativo è una tortura. Il pensiero del matrimonio lo terrorizza. Soffre d’insonnia. “Meglio non dormire, che vivacchiare così”.
La metamorfosi è il racconto che tutti conoscono. Un commesso viaggiatore si sveglia un mattino, nel suo letto, trasformato in scarafaggio. Tutti i familiari provano repulsione per lui, lo rinchiudono in camera e lo lasciano morire di fame. Quando è morto stecchito, lo gettano nei rifiuti. Un’identificazione così vertiginosa con un insetto immondo non era mai stata tentata in letteratura.
Kafka prova la stessa repulsione per il suo corpo, che considera di “una bruttezza inevitabile”. Si sente “abominevole”. Scrive della sua fidanzata: “Se Felice ha contro di me la stessa avversione che ho io, il matrimonio è impossibile”. Prova repulsione per il coito. La sessualità è “sporcizia e sudiciume”. Anche i racconti che escono dalla sua mente febbrile sono “coperti di muco e di lordura”.
Tema dominante dei suoi scritti: la colpa. Kafka è il capro espiatorio. I suoi personaggi sono giudicati e condannati senza motivo. Quando leggiamo Il processo, Nella colonia penale, La condanna, non dimentichiamo che Franz è laureato in Legge. La legge in Kafka è arbitraria e inaccessibile come Dio, nel suo Castello. Anche se non saprà mai perché è stato condannato a morte, K. non si sente innocente, è come una cimice che puzza anche dopo che l’hai schiacciata (immagine da un sogno di Kafka, riportato nei Diari). L’autore boemo è facile da leggere, con il suo stile terso, ma è difficile da capire. Perché accetta la sua condanna come una meritata ingiustizia? Sembra ironizzare, con i suoi scherzi di fantasia scatenata, che sono descrizioni precise di un destino implacabile.
I suoi racconti e romanzi sono narrati in terza persona, ma il narratore è inaffidabile, perché neppure lui capisce cosa succede, è sopraffatto dall’assurdità della vita quanto i personaggi che la subiscono. Questa è la modernità di Kafka. “Io sono troppo visivo. Vivo con gli occhi”. Le ambientazioni sono realistiche, ma le storie sono paradossali. Vladimir Nabokov parla della chiarezza del suo stile, “l’intonazione precisa e formale, così in contrasto con l’incubo del racconto. Nessuna metafora poetica adorna la cruda storia in bianco e nero. La limpidezza del suo stile evidenzia la ricchezza oscura della sua fantasia”.
Leggendo il carteggio frenetico (una lettera al giorno inviata all’amata Felice), riconosciamo le nostre infatuazioni di adolescenti, l’attesa angosciosa di una risposta che non arriva mai, o magari si è perduta. Il tema ossessivo della lettera perduta, e del mancato nutrimento che contiene, è legato alla solitudine. Kafka vuole le lettere delle sue donne, ma non la loro presenza. “Io devo stare molto solo. Ciò che ho prodotto finora è tutto effetto della mia solitudine”.
Nei Diari si trovano accenni al suicidio, come gettarsi dalla finestra, ma Franz preferisce una fine lenta, quella che subiscono i suoi personaggi. Gli autori che legge (Goethe, Flaubert, Dostoevskij, Strindberg) gli danno “nutrimento”. I familiari, le donne a cui scrive, non lo nutrono, e Franz fantastica di lasciarsi morire di fame. Ma la vita gli riserva la sorpresa della tubercolosi. Il primo sbocco di sangue è la condanna definitiva. Si sente un fallito, nel lavoro, nell’amore, in letteratura, e ora il corpo lo punisce per tutte le notti insonni e lo stress a cui lo ha sottoposto.
Kafka sente “soltanto la violenza della vita”. “Cavo come una conchiglia nella spiaggia, disposta a farsi stritolare da una pedata”. In una lettera a Milena: “Io, bestia silvestre, in un fosso lurido”. Gli ultimi racconti, scritti prima di morire: Indagini di un cane; La tana; Il popolo dei topi.
“Popolo dei topi” era un insulto usato in Europa ben prima dell’arrivo dei nazisti. Il concetto di “insetti parassiti” era affibbiato agli ebrei già dal 1800. Nell’Italia di Italo Svevo (1861-1928) i giornali parlavano già di “aria ammorbata di microbi semiti.”
Gli epiteti usati dagli antisemiti durante il Terzo Reich: topi, cani, scarafaggi, vermi, parassiti. Quindi i nazisti non hanno inventato nulla di nuovo nell’Europa dei pogrom, a parte le efficienti industrie del genocidio. Gli ebrei nei campi di sterminio vennero liquidati con il fumigante Zyclon B, a base di acido cianidrico, che veniva usato come insetticida per la disinfestazione da pulci e scarafaggi. Kafka non fa uso di metafore, ma i nazisti grondano figure retoriche letali!
È stato detto dell’opera di Kafka che fu un presagio dei tempi a venire, ma Kafka non era un profeta. Aveva le antenne ben sintonizzate sul suo tempo. Assorbiva tutto l’odio intorno a sé, tutta la violenza già presente. Lo sentiamo così attuale, dopo cent’anni, perché quella violenza è ancora tra noi. Il nazifascismo è stato sconfitto militarmente, ma l’odio che lo ha prodotto è vivo e in pieno vigore.

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