C’era una volta Parigi

Quando arrivai la prima volta, in treno, era Natale. Tutta Parigi – i grandi boulevards, il metro, perfino l’austera Place Vendome – aveva un profumo penetrante, dolciastro. Naturale, dato che i boulevards erano invasi di bancarelle che vendevano croccantini, zucchero filato, e c’era una fiumana di persone – mai viste tante persone – che andavano in su e in giù, tra la Madeleine, l’Opera e Rue de Rivoli. L’ hotel, piccolo piccolo e appena decente, dalle parti di Boulvard Haussmann, era collegato con un ristorante dal nome fantastico, “La Boutique du Patissier”. Mio padre era morto da pochi mesi e mia madre aveva deciso: con i biglietti che le Ferrovie Italiane riservavano alla vedova, alla famiglia del valido ingegnere venuto a mancare prematuramente, si va a Parigi. Il Louvre e la Gioconda, sì. Il silenzio delle arcate altissime, buie, angosciose e strabilianti di Notre Dame, sì. Il cielo stellato della Sainte Chapelle. Gli impressionisti al Jeu de Paume, quella incredibile cattedrale di Rouen a tutte le ore del giorno, sì. Ma più di tutto la rivelazione delle escargots, mostriciattoli da mangiare in una salsina magica, una volta estratti da certe uova di legno che dovevi tener saldamente ferme con apposite pinzette. Doveva far molto freddo, ma non me lo ricordo. Curioso.
In agosto il clima era molto diverso, questo è ovvio. L’agosto unico, indelebile, che segue l’esame di maturità. Quattro ragazzi e una ragazza ufficialmente dichiarati maturi sbarcano a Parigi su una Lancia Flavia messa a disposizione dal padre di lei, uomo estremamente fiducioso nei giovani. Sono amici? Chissà. Dei cinque di allora ne è rimasto uno solo, nel piccolo orizzonte dello scrivente. Visti gli anni passati, in fondo non è poco.
Di nuovo inverno, stavolta il freddo si sente, eccome. Ci sono le fotografie, a dimostrarlo. Si vede una ragazza bionda, intabarrata in piumone, sciarpa e berretto tutto rigorosamente nei toni pastello che andavano allora. Forse i pittori di Place du Tertre erano ancora pittori, forse i nostri occhi puri li vedevano ancora così. Nelle foto del matrimonio invece, qualche anno dopo, c‘è il sole di Roma, ci sono i bei vestiti, tutti sono belli e sorridenti, ma quella purezza è già sparita.
E’ strano. Più si va avanti e più tutto si confonde. Ora c’è una madre e c’è una bambina meravigliosa, che mangia carne argentina sugli Champs Elyseès. Poi sgrana gli occhi, volando con Peter Pan nella città di Topolino. I suoi occhi sono ancora i miei, siamo bambini insieme, ancora, coi Pirati e la regina cattiva che taglia la testa a tutti, prima che Dumbo si stacchi dalla giostra e ci porti direttamente all’ultimo piano di una scatola meravigliosa, tutta di vetro e tubi colorati. Non si capisce più se il tramonto di Montmartre sia lì, reale, oltre il vetro, o se stai sempre volando, stavolta con Chagall, sui tetti di Parigi.
Di notte però, previsto e imprevedibile, c’è l’appuntamento con una ragazza piccola, dai capelli scuri e gli occhi verdi. Ha paura, lei, sugli Champs Elyseès. Paura dell’amore che forse nasce. O forse no, chissà.
Ve l’ho detto che tutto s’ingarbuglia, che i ricordi più passa il tempo e più ti fregano. Quante immagini si aggrovigliano negli anni successivi, colorate e inestricabili come la pianta del Metro. Madri che spariscono, rimpiazzate da altre madri, vita che si dissolve, che cambia senza nemmeno avvertire.
Adesso c’è un’altra madre, e c’è un bambino tutto capelli e ironia, innamorato della Torre Eiffel che vede laggiù, dalla mansarda del Marais. Un giorno ci salirà, statene certi.
Parigi, intanto, è diventata una mezza New York, basta un quarto d’ora di metropolitana e te ne accorgi. La bambina è diventata una donna, un’artista terribilmente brava e inquieta, con un fratello adolescente. Un tipetto che sembra parecchio sicuro di sé, col suo ciuffo biondo alla Brad Pitt.
C’è ancora tanto da vedere e tanto da camminare, ci sono Romain Gary e Daniel Pennac da salutare nel caos mediorientale di Belleville, ci sono occhi da tenere bene aperti e lunghe file da fare, per illudersi di stare più tranquilli. C’è da scalare finalmente la grande Torre di ferro, impresa che qualunque madre sconsiglierebbe a un ex bambino ormai anzianotto.
Ma non ci sono madri con noi oggi, a Parigi.

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