C’era una volta una gatta

La storiella va così: il giorno del mio quindicesimo compleanno ero a letto con l’influenza, di umore plumbeo, quando, toc toc, entra a farmi gli auguri Piero Scaramucci, proprio il futuro fondatore di Radio Popolare (prima Milano Centrale.) Amico del cuore di mia sorella Irene, già allora era un tipo straordinario, e quando dico straordinario intendo letteralmente, anche in questo: non si era mai visto qualcuno che violasse l’apartheid a cui erano soggette le sorelline, colpevoli di appartenere a quell’età di mezzo per cui erano simpaticamente definite dagli adulti “né carne né pesce.” In genere le sorelle maggiori le consideravano delle gran rompiballe, e che se ne stessero al loro posto, zitte e buone. Ma non Irene, che spesso e volentieri mi accoglieva nella sua cerchia di neo-diciottenni.
E neanche Piero, che pure era più grande, e avrebbe a buon diritto potuto trovare ancora più fastidiosa la mia occasionale presenza. Invece no, sa il cielo come e perché, non mi trattava con paziente condiscendenza ma con affettuosa curiosità, come fossi una personcina interessante!
Si era creata tra noi un’alleanza speciale attorno alla simpatia per gli animali, in particolare cani e ancora più in particolare gatti, da lui prediletti (e ad eccezione dei maialini).
Negli ultimi tempi quella per i gatti era cresciuta fino a diventare una vera passione/ossessione per me, che, da quando la famiglia si era trasferita nella casa nuova, non ne avevo più nessuno da coccolare e sfruculiare. Prima, nel mitico triennio di via Pompeo, c’era stata la quotidiana epifania di Mollicone, come avevamo battezzato noi lo stupendo, morbidissimo persiano grigio del vicino – dove teneva famiglia – che aveva deciso di adottarci a metà tempo nel momento stesso in cui avevamo messo piede sui gradini della villetta. Mollicone, superando mia madre, che aveva sospirato: “Ma questo gatto intende vivere con noi?”, si parò maestoso davanti al portone per farci gli onori di casa, non sua. Fu amore a prima vista.
Per riempire in qualche modo questo vuoto io non facevo che disegnare buffi mici in stile fumetto, tra cui i “Gatti Chanel” di mia invenzione; Piero li trovava molto divertenti, tanto che gli venne l’idea di farmi realizzare un bel po’ di biglietti di auguri natalizi di quel genere. E’ stato il primo committente della mia vita, di un lavoretto super gratificante e super retribuito!
Ed eccoci tornati nella stanza della malatina, felice e lusingata per quella visita inattesa. Però c’era qualcosa che non mi quadrava, Piero aveva un’aria strana, portava un blazer da giovin signore, chi l’aveva mai visto così, e ancora più strano era quel rigonfio all’altezza del cuore. L’enigma durò il tempo di un battito di ciglia: Piero infilò la mano nella giacca, ne estrasse un batuffolino nero e ispido, un po’ punk, e me lo depose sul petto.
La creaturina prese immediatamente a fare la pasta e a fare ron-ron, e io fui sommersa da un’ondata di emozioni indescrivibili. Che gioia, che gioia! Grazie, grazie!
Piero, col suo bel sorriso dolcemente ironico, stringendosi appena nelle spalle dentro quella giacca formale, ribatté: Sì, è un gatto di razza, un persiano, mica per caso (sapeva di Mollicone), ma se proprio ci tieni al pedigree, te lo paghi tu! E giù a ridere, io, lui e la baby gattina.
Dichiarato il mio democratico disinteresse per il suo albero genealogico, trovai immediatamente un escamotage per restituirla in qualche modo – parodistico, come al solito – al suo rango, conferendole l’altisonante nome di Menècole Mignurini Ronfignol degli Acquattati. Piero non sollevò neppure un sopracciglio.
Presto il nanetto punk diventò una gatta bellissima dal manto sontuoso e gli occhi magnetici.
Seguirono quindici, forse sedici, anni d’amore e di spasso incessante; anche quando abitavo ormai da anni nella mia mansardina, non perdevo occasione per correre a casa della mamma per stare con lei. Finché un triste giorno attraversò il Ponte-Arcobaleno, con passo felpato e grande dignità, senza troppo soffrire.

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