Vi assicuro, esser scambiati per bombarolo perché porto la barba, mi fa lo stesso effetto di quando mi accorgo della nausea che prende terreno nel mio interlocutore dopo che mi ha chiesto sornione se a casa ho le lamette. Certe volte mi pigliano per israeliano. In altre occasioni la sfumatura afghana fa la protagonista sul palco della frivolezza.
Sia chiaro, è quasi un sollievo sapere di far schifo. Almeno non devo litigare con le domande che nutrono l’infelicità negli esseri umani.
Con il “chi sono?”, “da dove vengo e vado?” e “perché sono su questa terra e non negli Emirati Arabi che lì c’è il petrolio?” si promuove solo quel desiderio malsano di sapere come gira il mondo.
È piacevole scoprire che la lista di chi vuole collocarmi geograficamente in Medio Oriente si allunga in rapporto ai centimetri della barbetta. In certi casi si tratta di quei tizi che azzardano la fortuna e ingozzano monete nelle slot machine.
Noi occidentali del sud, che poi siamo del nord rispetto ai paesi del sud, e siamo insieme al nord il sud rispetto al nord del buon senso, abbiamo una mania nell’usare i metri di giudizio per calcolare l’estensione dei luoghi comuni. La stessa unità di misura che usa una categoria di maschietti quando minimizza le cortezze occidentali con la convinzione che le lunghezze, alla fine, non contano.
Si sta diffondendo tra noi beduini italiani una moda simile al gioco della serie “indovina da che paese viene quello con la barba”. È nei flussi di quest’acrobazia mentale che la platea di concorrenti definisce i limiti geografici di ognuno tranne quelli del proprio cervello. I luoghi sono comuni un po’ a tutti e le idee si rotolano contente come carne di maiale dopo un giro sul barbecue.
Nella lista non manca chi pensa che un regista debba sempre esercitare il proprio gusto estetico. Perciò la barba fa di chi la indossa un terrorista, come negli anni ’80 chi aveva un tatuaggio era drogato. In una marea di luoghi comuni galleggiano tatuati spacciatori e barbuti attori del terrore. Nessuno che sia capace, invece, di spendere due parole sui risvoltini alle caviglie. All’appello non si sottrae neppure chi, sentendomi parlare in italiano, continua a collegarmi a una cellula operativa dell’Accademia della Crusca.
A conferma che il nostro è un suk delle idee reali, una volta un nord africano mi disse con entusiasmo qualcosa nella sua lingua. Vedendomi perplesso esclamò triste «ah, sei italiano» e si congedò con un «cià, fraté’» in napoletano. L’elenco poi si allunga con certi tutori dell’ordine. Uno di loro m’invitò a levarmi i quattro peli che ho sulla faccia perché secondo la sua opinione facevo schifo ─ spiegargli che faccio schifo pure senza l’ho ritenuto superfluo.
La barba per molti andrebbe levata per dimostrare che si può guarire e tornare italiani e che mi lavo. Perché, in fondo, è meglio rendersi riconoscibili e smetterla di scimmiottare gli hipster. Ergo ─ che non è arabo ─ so perfettamente come ci si sente.