Christine Lavant

Christine Lavant e l’assenza di tregua

Solo un ramo secondario del sonno,
selvaggio e bastardo, allevato alle droghe
si prende cura a volte della mia anima.
Due esseri abusati a servizio uno dell’altro,
consolano quel che ancora va consolato
e benevoli nascondono ciò che sanno
mettono al mondo sogni dimidiati
cerei e senza volto
ignoranti di pazienza e cura
sciolti già al primo canto del gallo.
E tuttavia sono figli piccoli
battezzati di corsa, tutti consacrati
a colui che li ha sacrificati entrambi
come due schiavi o cani randagi
mentre il buon nobile sonno
si corica solo con anime illustri.

 

Christine Lavant in ogni poesia ha messo la sua vita “strapazzata”. È lirica della solitudine, di un io che sbatte tra le pareti di un corpo sofferente e che vorrebbe solamente avere un mondo col quale interloquire. Il mondo che sta attorno alla solitudine di Lavant è costituito da una fede cristiano-cattolica sofferta che la tormenta, e  da una natura mistica e al contempo magica. Il suo linguaggio originale e talvolta oscuro squarcia su visioni lucidissime che accadono tra le righe sotto gli occhi del lettore: la personalissima storia di Christine diviene umanità intera. La lotta di ogni notte, un braccio di ferro per la vita, crea percorsi assoluti come “il ramo secondario del sonno”, unico, anche se “selvaggio e bastardo, allevato a droghe” che sollevi l’anima: ne nascono sogni dimezzati e senza umanità che svaniscono prima dell’alba. Il sonno è l’inquietudine dove i ricordi divengono nodi “La mia memoria, per via dei molti nodi / diventa irregolare come un campo di patate / e non posso prendermela con il sonno, / se se ne va a stare altrove”. Quale poetica e magistrale descrizione della sofferenza notturna, delle torture dell’anima, delle strozzature del pensiero che non trovano cura, tregua. In un gran numero di sue liriche tra le righe compare Dio, spesso crudele e lontano, Lavant gli porta rancore ma lo ama, lo accusa ma lo chiama, lo invoca e gli si sacrifica quasi lei stessa fosse un cane randagio o uno schiavo. La lucidità nel cadere e la lungimiranza nel dolore generano poesie abbacinate e terse, in cui il vedersi da fuori spesso è una costante: “Lapidata mi afferro alla ruota della vita /pur sapendo che anche le stelle cadono”. La sua vita di malattia, solitudine e povertà ha creato in versi un mondo visionario e nella poesia un mondo di salvezza.

 

Christine Lavant, Poesie, Effigie, Milano, 2016

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