T’insegnavo che gli gnocchi si scolano con la schiumarola, sennò esce un pappone, persino io lo so. Era l’apogeo dei nostri esperimenti, nella cucina di campagna grande come un bel monolocale. Maldestri, abbiamo sfasciato il frullatore, mi sono inondata di passato di fragole e hai dovuto scarrozzarmi controvoglia da Maria Rosa, la “pettinatrice” di prima scelta.
Mi procacciavi i grissini rubatà, la taumaturgica frittura dolce che io, reginetta del microonde, riscaldavo nell’ordigno a te inviso, e la Schweppes, il Corriere e a sopracciglio alzato Repubblica. Borbottavi contro gli infiniti caffè che ti facevo preparare con la Lavazza; allenata alla praticità delle capsule Nespresso, osteggiavo la leva. Il vecchio siamese Woody ci braccava, sgomento, con l’andatura artrosica da armadillo.
Inanellare gesti quotidiani ci narcotizzava dalla sentenza innominabile, Papà.
Un mattino, smontando per prodigio la nera diagnosi di cui ero unica custode, portarono per la seconda volta alla vita tua moglie. A Torino, nella clinica dei destini intrecciati, dove era stata partorita e dove, ragazzo, eri scampato dalla polmonite. Inalberavo la piega magistrale, per non contrariare Lei, sempre delusa dai miei capelli di alghe; tu, sbalordendomi, allungasti una cifra iperbolica. Oltre al necessario richiesto dalla caposala servì a materializzare una smilza camicia di jersey con cui, in quella primavera già anticiclonica, indignavo le suore. La serbavo nell’armadietto della sua camera, assieme alle friulane fucsia comprate a Venezia, a Thomas Hardy e all’armamentario dei trucchi che incantava le infermiere. Al solito guardavi storto le mie labbra carminio, ma ora glissavo: tutto era soffice, privo di spigoli.
Negli anni dell’università avevo patito Torino, tua imposizione: mi accerchiavano caligine, botteghe che non si prendevano la briga di cambiare vetrina per mesi, mie coetanee in gonnellone di taffetà a riquadri e filo di perle, attente a non affidare mai alle «donne» gli asciugamani ricamati «di famiglia». Ora pareva una città nuova, luce assoluta che giocava con le facciate color girasole, un cielo di smalto. Me n’ero infatuata, come si è attratti in ritardo da qualcuno che, per capriccio o negligenza, avevamo trascurato, senza rimpianti però. I tassisti che mi accompagnavano in centro, cogliendo le vocali ampie, mi classificavano all’istante come milanese, omettevo i dettagli rendendoli orgogliosissimi che avessimo preferito un chirurgo locale: «Ci porti tanti auguri alla sua mamma».
A pranzo mangiavi un panino al bar, con un occhio alla tua Juve su Tuttosport , io il risotto giallo e i gamberi al curry della diaria per l’accompagnatore. Dopo invertivamo: tu accanto a Lei, io ad acchiappare nuvole al cellulare e a incagliare tacchi nei binari del tram, sul viale di tigli.
Ho sempre cenato a orari mediterranei, una delle bizzarrie che ti esasperavano, tu baluardo di tradizione conformista, nato per beffa il 14 luglio.
Tornavamo a casa, avevamo una casa. Chissà se parlavamo, durante quei settanta chilometri di tragitto, oppure ci raccontavamo con i nostri silenzi, con i medesimi sorrisi un po’ sghembi? Non era più guerra, affiancati nella stessa trincea. I corvi ci squadravano, protesi e pazienti. Ma era il tempo di grazia che, per una volta, ci fu accordato, dieci giorni divisi tra di noi. Spalancati sulla promessa, la notte prima dell’intervento, mentre, così piccino nella tua corpulenza ti moltiplicavo le gocce di ansiolitico ─ non sapevi quante prenderne, le aveva sempre contate Lei: «Comunque vada, non ti lascio solo, tu che solo non sei mai stato, se devo tornerò qui».
Le prove generali che sarebbe toccato a me, meditabonda e un poco sventata, ancora sospesa fra De Saussure e Marie Claire, essere ─ chi l’avrebbe mai detto? ─ la più forte dei vivi. Incarnando infine il tuo mancato Andrea, io invano destinata al nome del padre da cui non avevi ereditato saldezza.
Ubriachi di liberazione non sospettavamo di aver sfidato gli dèi con la nostra impudente armonia. Né abbiamo saputo leggere la misericordia di quell’anomala tregua.