C’è un posto dove si può vedere la faccia oscura della luna. In realtà non è un luogo, è un tempo. Si partiva la sera del plenilunio. Solitamente nella seconda metà di agosto. Lasciate le auto al rifugio Auronzo, ci dirigevamo verso il Locatelli. All’andata, con le ultime luci del giorno, percorrevamo il sentiero alto. C’era un ponticello sospeso. Mio padre lo faceva stando a cavalcioni. Nonostante frequentasse la montagna fin da bambino continuava ad avere paura del vuoto. Era un montanaro d’altri tempi. Per i sentieri indossava giacca e cravatta, ma un giorno la zia gli impose il maglione e i pantaloni di velluto. Erano gli anni settanta. Io vivevo dai fratelli di mio padre, diviso tra Cortina e la baita di Borca di Cadore. Qui dormivo in una stanza con i cugini e gli altri ospiti. Spesso capitava di essere sei maschi di età compresa tra i 14 e i 20 anni. La stanza la chiamavamo il deposito di diossina. Eravamo giovani, belli, ma non arrabbiati. Non ce l’avevamo con il mondo. Preferivamo tenerlo lontano con le nostre fantasie demenziali e le nostre mefitiche puzze.
In meno di un’ora la tribù giungeva al rifugio con uno dei panorami più famosi del mondo. La cima grande, la ovest e la piccola. Nessuna delle tre raggiunge i tremila metri, ma tutte e tre insieme, quando l’ultimo raggio di sole carambola dal Paterno sulle pareti nord delle Lavaredo, sono capaci di elevare lo spirito a un punto così alto da rendere evidente che la gloria di colui che tutto move in questa parte dell’universo penetra e risplende più che altrove. Lo stato di grazia di noi ragazzini si può vedere nelle foto. I visi erano estasiati, trasfigurati. Il languore che traspariva in alcuni era solo quello degli stomaci. Panino con tonno e panino con speck o formaggio. Mangiavano e ridevamo per nulla. Non sapevamo che le nostre risa erano preghiere. Così la luna a quel pregar la nube aperse per mostrar l’alta bellezza sua sotto più forme. Enorme e vicina. Talmente vicina che sarebbe stata sufficiente una scala per montarci su per andare a raccogliere il senno perduto di Orlando o il latte del vecchio Qfwfq. Tornando per il sentiero basso cantavamo. Fu così che il nostro cantare commosse la luna che decise di accompagnare i nostri passi per altre mille lune ancora.