Cinquant’anni dopo

Rivedere i film che ci sono piaciuti cinquant’anni fa è un esercizio di autocoscienza
notevole. Consente di cogliere il significato del passaggio del tempo in modo
abbastanza indolore, ma piuttosto preciso e anche utile. Per esempio, sulla scia della morte di Alain Delon, ho sentito in modo quasi urgente la voglia di affrontare (in tv, si capisce) uno dei suoi film più belli, scritto e diretto dal nostro grande Valerio Zurlini: “La Prima Notte di Quiete”, naturalmente.
Intanto ricordo che, sul mio quaderno di adolescente alle soglie dei vent’anni, avevo dato il massimo punteggio al film, una volta tornato a casa dopo l’ultimo spettacolo, allora collocato alle 22.30. Considerate le discussioni del dopo cinema, qualche vagabondaggio per la città e magari gli inevitabili cornetti caldi delle tre, comprati e consumati in strada con aria circospetta, da teneri trasgressori della legge, la valutazione sul taccuino dei film ebbe luogo intorno alle quattro del mattino.
Una valutazione che oggi confermerei in pieno. Ma con le stesse motivazioni? Vediamo un po’.
La vita dei debosciati di Rimini, eredi dei vitelloni felliniani, appariva allora estranea al nostro mondo di studenti perbene, al massimo un po’ lavativi e tiratardi. Il bellissimo e dannatissimo professor Dominici/Delon, affiancato da attori del calibro di Giancarlo Giannini, Renato Salvatori, Adalberto Maria Merli insieme alle dolenti donne di provincia tratteggiate da due mostri sacri come Lea Massari e Alida Valli sono uno spettacolo indimenticabile. Un campionario completo di umanità corrotta, schiava della noia, dell’interesse, del sesso facile e del vizio in ogni sua forma, cioè quello che i nostri genitori temevano potessimo diventare. Noi magari un po’ ci divertivamo, a far credere di essere affascinati da quella trasgressione esibita, da quegli eccessi da sesso e droga senza rock&roll, al punto di scimmiottare quel modo di essere, di vivere. Di essere pronti a innamorarci perdutamente di una Vanina, angelica e diabolica, purchè avesse gli occhi spenti ma fieri della splendida Sonia Petrova. Forse qualcuno lo era anche.
Ma lo sapevamo, noi studentelli di città andati a letto dopo Carosello e accuditi da famiglie premurose, di avere ben altri, doverosi obiettivi nella vita: una laurea, il posto fisso, una moglie da rendere madre, una famiglia regolare, o come si dice oggi, tradizionale. Praticamente l’invettiva finale urlata dal protagonista di “Trainspotting” vent’anni dopo, a giochi ormai fatti per tutti.
No, non siamo diventati quei debosciati amorali, disperate mosche vaganti sotto la pioggia eterna di un livido inverno stravissuto in riviera, antenata, a pensarci col senno di poi, della distopica metropoli di “Blade Runner”. Dalla quale però i due innamorati riescono miracolosamente a fuggire, mentre la bassa padana, molto più crudele, inghiotte nella nebbia e nel fuoco ogni speranza di redenzione.
Ma non siamo diventati nemmeno quello che sognavano i nostri genitori. Siamo un’altra cosa, com’è giusto che sia. Non chiedeteci cosa, però. Sarebbe troppo.

 

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