Il giorno che morì, ritrovai la parola del Poeta

 

Conobbi Alfonso Gatto (1909-1976) negli ultimi anni del liceo. Frequentava abitualmente la casa del mio fraterno amico Umberto Schettino Nobile, nipote del famoso trasvolatore del Polo Nord, i cui genitori erano del poeta altrettanto amici.

Gatto era allora poco più che cinquantenne e appariva a noi adolescenti un vecchio stravissuto: sigaretta accesa e pendula dalla bocca, una parlata continua un poco strascicata, per mezze allusioni, con sintesi brillanti e paradossi che lo rendevano inaccessibile alle nostre innocenti orecchie. Inaccessibile ma non incomprensibile.

Trasmetteva sensibilità e ardore comunicativo da tutti i pori. Amava stare con i ragazzi, con i tipi lontani dalle ambizioni borghesi di carriera e di potere, amava suscitare attrazione per la sua scelta di vita eccentrica, libertaria e tutta presa dall’amore per le ‘virtù taumaturgiche’ della poesia.

Sapevo che era stato un comunista. Sapevo anche che se ne era allontanato. Nel mio conformismo ideologico ne provavo attrazione e timore. Mi piaceva molto tuttavia stare ad ascoltarlo quando ci incitava a non credere ad altro, nella vita, che alle ragioni-passioni del cuore e della coscienza, che erano le sole ‘armi’ della poesia di cui l’uomo potesse disporre e in cui riporre fiducia. Lo ascoltavo incline e in parte incredulo, per congenito scetticismo…lo ammiravo.

Finito il liceo, non lo incontrai più. Venne poi il 1968, passò il tempo isterico dell’ impegno e della ‘scelta ideologica’, vennero gli ‘anni di piombo’. Una mattina di marzo del 1976, lavoravo in cronaca de l’Unità, venne a catapulta la notizia inattesa della sua morte per un incidente stradale sulla Aurelia a due passi da Orbetello. Non aveva il poeta toccato i settanta anni. Rimasi colpito e addolorato per quella che mi si rivelò la sua mancanza imprevista, imprevedibile.

Alfonso Gatto, con le sue parole, col suo fare ‘ermetico’ e affabulante, con il suo scanzonato anarchismo acuto e disperato, aveva sedimentato profondamente nella mia coscienza, molto più di quanto non potessi immaginare. La sua ‘lezione’, aveva lasciato una traccia forte, più forte del previsto. Da quel doloroso distacco, avvertito come la perdita di un parente affezionato o qualcosa di molto familiare, iniziai a leggere per la prima volta le sue poesie, che, per un coattivo pregiudizio, avevo negli anni precedenti volutamente tenuto lontane da me.

I suoi versi mi apparvero subito come la eco dei suoi discorsi e modi di fare, che avevano incuriosito quanto anche intimorito, i due ribelli adolescenti ben più inclini ad ascoltare le dotte ‘sirene della ideologia’. Da quel momento la ‘parola’ di Gatto iniziò a risuonare in tutte le sue corrispondenze armoniche, rivelando il potere del ritmo, della melodia, dei temi e delle variazioni di tono, del colore e della architettura di un componimento poetico.

Il sentimento filtrato dalla espressione è ciò che distilla ogni autentica poesia, e la poesia di Alfonso Gatto ne è un esemplare contrassegno. Un canto lungo, formalmente compiuto, che si risolve in ogni descrizione, in ogni motivo che lo ispira: Gatto era così, uomo e poeta insieme in ogni occasione della vita. Sfogliare i suoi libri di versi, lasciarsi attirare dal canto, equivale a riconoscerlo mentre ama, litiga,contempla e riflette pensoso o pure grida sul male di vivere che tocca a ciascuno nel mondo.

 

 

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