Arrivò alla stazione di G. in perfetto orario. Le cinque e trentaquattro del mattino, ora di partenza del primo regionale diretto nel capoluogo. Il paesino era ancora silente e sonnacchioso, come i pochi pendolari che vaporizzavano i loro sbadigli nell’aria gelida di quell’inverno anticipato. Per arrivare alla stazione, era dovuto uscire di casa prestissimo: alle quattro e venti partiva la corriera che collegava la città a G. e lei non voleva perdere per nessun motivo quel treno con pochi scompartimenti che l’avrebbe, poi, riportata indietro, al punto di partenza. Adesso batteva i piedi per riscaldarsi un poco e si stringeva nel cappottino celeste, inadeguato alla stagione, allo scompartimento sporco che presto l’avrebbe accolta, al suo stesso umore.
Finalmente l’annuncio e, poco dopo, il fragore del treno in arrivo, appena smorzato dalla nebbia che avvolgeva cose, case e pensieri.
Salì con qualche difficoltà – le ossa pativano l’umidità del mattino – ma non si sedette subito. Come incerta, percorse lo stretto corridoio: molti erano i posti liberi e chi si era accomodato ciondolava il capo, già vinto dal sonno perduto, o socchiudeva le palpebre per riprendere il filo del sogno interrotto. Scelse infine un posto di fronte a un uomo di piccola statura, la barba del giorno prima, il viso testimone di anni trascorsi a vivere e a spostarsi, forse un tempo con entusiasmo, poi sempre più stancamente.
Sistemò con cura il suo cappottino celeste, ripiegandolo con meticolosità, e si lasciò finalmente cadere sul sedile ancora impregnato del fumo e della spossatezza dei molti viaggiatori che nel tempo aveva accolto.
Fu immediatamente dopo che cominciò a parlare, prima lentamente, poi come un fiume in piena, ma sempre sussurrando le parole, senza aver neppure accennato un gesto di saluto o un timido convenevole per il suo compagno di viaggio.
Questi, dapprima, non comprese. Cortesemente si sporse verso la donna come per chiederle di ripetere, immaginando volesse domandargli un’informazione. Poi si accorse che la signora neppure lo guardava negli occhi, se non nelle brevi pause per prendere fiato, e proseguiva una sorta di monologo di cui subito non riuscì a capire che poche e scoordinate frasi. Ma man mano che il discorso si faceva più pieno, più spiegato all’orecchio ormai attento dell’ascoltatore, il senso appariva più chiaro. E tremendo.
La signora stava riversando sullo sconosciuto un dolore insopportabile, rivelando pensieri atroci, scelte subite e passi non fatti, il peso del male inferto e ricevuto, ferite e silenzi, accuse e ammissioni. Non attendeva risposte dall’uomo, neppure gliene avrebbe concesso il tempo. Terminò soltanto quando già le luci della stazione annunciavano la raggiunta meta, quasi avesse calcolato che la durata di quanto doveva dire coincidesse con quella del percorso. Allora si alzò, infilò con calma il cappottino e chinò lievemente il capo, in un gesto di grato congedo.
Il viaggiatore rimase al suo posto, ancora sbalordito per quanto era accaduto. L’invito sollecito del capotreno ad affrettarsi e scendere parve ridestarlo. Addirittura, si precipitò nel corridoio e quasi si scaraventò giù dalla porta del vagone, per ritrovarsi sotto la pensilina ormai deserta del binario. La donna non c’era più.
L’indomani mattina, alla stazione di R., alle cinque e diciotto, una signora con un cappottino celeste salì in fretta i gradini che portavano all’interno dello scompartimento. Quel giorno aveva dovuto anticipare la sveglia: la corriera che l’avrebbe condotta a R. partiva solo alle quattro e cinque e non poteva rischiare di mancare la partenza. Anzi, quando giunse sui binari il treno stava già fischiando.
Trafelata, percorse tuttavia con calma studiata il corridoio e si fermò davanti a quella che pareva una studentessa. Questa le sorrise gentile, appena la donna le si sedette accanto, e il sorriso si allargò cordiale quando la udì pronunciare le prime parole. Ma dopo pochi minuti, il sorriso si spense in una smorfia di sgomento: la signora continuava a bisbigliare segreti inconfessabili (o così le parvero) e mentre la ragazza si incupiva incredula, l’altra viaggiatrice sembrava rasserenarsi e quando il convoglio si arrestò nella stazione cittadina, solo allora, indossando il cappottino celeste, la donna le rivolse un mormorato saluto.
La studentessa afferrò la borsa dei libri e scese attonita dal treno. Ne notò l’intontito stupore un ferroviere, che le chiese premuroso se potesse esserle utile. La ragazza rispose che no, stava bene, soltanto aveva avuto un incontro davvero curioso, che l’aveva lasciata perplessa e turbata. “Una signora col cappotto celeste?” la interrogò ancora il ferroviere. “Sì, proprio così. La conosce?”.
L’uomo le spiegò allora che da qualche settimana, diversi pendolari dei piccoli comuni della cintura di M., raccontavano di questi incontri stranianti: una donna di mezz’età, apparentemente normale e dai modi educati, si sedeva accanto o di fronte a loro e improvvisamente si metteva a bisbigliare parole che rivelavano un’inaudita sofferenza. Poi, così come era venuta se ne andava, quasi inghiottita dalla città d’arrivo. Chi fosse e cosa volesse, nessuno lo sapeva.
Era successo di notte.
Si era domandata, in seguito, se quella fosse stata una notte “buia e tempestosa” come nei racconti di Snoopy, picchiettati sulla macchina da scrivere posta in cima alla cuccia. In un certo senso anche lei era in una cuccia: un cumulo di plaid che sostituivano il calore di un abbraccio, in quelle lunghe notti dove il conforto di un sogno liberatorio o di un sonno ristoratore tardavano ad arrivare. Aveva preso l’abitudine di non sfidare neppure il grande letto a due piazze che un tempo ne accoglieva i giochi d’amore e le profonde dormite giovanili. Preferiva sfuggirne il carico di ricordi che l’avrebbe attesa, e accoccolarsi sulla poltrona del soggiorno, alla luce discreta di una lampada antica che rischiarava le pagine di libri che, ancora, la illudevano di vita.
“Buia e tempestosa” fu, dunque, quella notte? Forse, se usurate metafore potessero descrivere quello che da tempo era il suo stato d’animo: la luce della felicità si era poco a poco spenta tra tenebre di amarezza, neppure attraversate dal sollievo di una generosa smemoratezza o di una conquistata acquiescenza.
Era sempre stata riservata. “Un’asociale” sosteneva chi ne aveva subìto i silenzi, “una timidona” replicava chi l’aveva conosciuta ragazza, “una depressa” la compativa chi l’aveva incontrata negli ultimi tempi. Fosse una o tutte queste definizioni, fatto sta che il percorso doloroso che via via l’aveva condotta alla solitudine, l’aveva progressivamente isolata, e – vuoi per diffidenza, vuoi per paura – aveva imparato a tenere ben serrati in sé i propri segreti, le proprie sconfitte.
Ma ultimamente i pensieri parevano premerla anche fisicamente, quasi avessero urgenza di uscire: lo stomaco le si serrava appena provava a sbocconcellare qualcosa, il respiro le veniva meno anche quando non aveva faticato. Doveva fare qualcosa, parlare con qualcuno, sfogare l’amarezza e i rimpianti, confessare gli errori. Ma con chi?
Un prete? Non credeva. Anzi, aveva trasformato l’acredine che da piccola aveva nutrito per un dio che le era sempre parso crudele ed ingiusto, in un’indifferenza rassegnata verso la fede.
Uno psicologo? Aveva provato, una volta, ma si era sentita una sorta di cavia sottoposta a domande provocatorie e prove capziose.
Un parente? Ormai ne aveva più.
Un amico? Di veri non ne aveva avuti.
Un estraneo?
Un estraneo!
Ecco, quella fu l’idea, la tempesta, la luce ritrovata. Ciò che mai avrebbe rivelato a chi l’avesse da sempre conosciuta, poteva essere svelato senza timore a chi, non conoscendola, neppure poteva giudicarla. E quale ambiente migliore, per una conversazione mai più ripresa, della carrozza di un treno? Studiò le linee e i percorsi, badò di non salire due volte sullo stesso convoglio, scelse sempre le prime partenze del mattino (e mai dalla propria città, per non rischiare incontri con conoscenti) per confondere lo scaturire impetuoso della propria angoscia nella nebbia di un lento risveglio.
Fu così che iniziò la sua confessione pendolare e fu così che, una volta conclusa, poté scendere, per l’ultima volta, dal treno.