Deve uscire

Marcello Dell’Utri, condannato nel 2014 per concorso esterno in associazione mafiosa, è stato uno stretto collaboratore di Silvio Berlusconi, ed è tra i fondatori di Forza Italia. Questo particolare divide buona parte dell’opinione pubblica sul suo caso giudiziario tra nemici colpevolisti e amici innocentisti. Tra gli innocentisti, molti ritengono che si tratti di persecuzione politica. Ma chi è animato da desiderio di giustizia deve essere in grado di ragionare sui fatti a prescindere dai propri orientamenti. Non sono un giurista e sicuramente un giurista può argomentare molto meglio di me, codici alla mano, in un senso o nell’altro. Ma sono convinto, come spero lo siamo tutti, che la legge esista per i cittadini, e non viceversa. In questo articolo dico, da cittadino, perché Dell’Utri non dovrebbe essere in carcere e perché è urgente che le persone sincere e libere di qualsiasi colore si mobilitino affinché ne esca presto, e da vivo.
In primo luogo, Dell’Utri in carcere non sarebbe mai dovuto entrare. Non sono io ad affermarlo ma la Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel 2015 sentenziò sul caso analogo di Bruno Contrada. Il “concorso esterno in associazione mafiosa”, reato inesistente nel nostro codice penale, è un’interpretazione giurisprudenziale che è andata maturando negli anni ma che, all’epoca dei fatti per i quali sono stati condannati Contrada e Dell’Utri, non era ancora definita in modo compiuto. Da qui la sentenza della corte, che riporto in lingua originale per evitare il rischio, nel tradurla, di aggiungere interpretazioni inopportune: “A’ l’époque où les faits reprochés au requérant ont été commis (1979-1988), l’infraction en cause n’était pas suffisamment claire et prévisible pour celui-ci. Le requérant ne pouvait donc pas connaître en l’espèce la peine qu’il encourait du chef de la responsabilité pénale découlant des actes qu’il avait accomplis”.
La sentenza di Strasburgo potrebbe sembrare questione di lana caprina. Se Dell’Utri era colluso con la mafia, che importa che il reato specifico non esistesse ancora, vada in galera e ci muoia. Così pensano in molti, ma sbagliano. L’articolo 25, comma secondo, della nostra Costituzione, dispone che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Perché esiste questo articolo, che altro non è che la traduzione italiana dell’assioma “nullum crimen, nulla poena sine lege”? Perché, se non esistesse, chiunque di noi potrebbe essere condannato in base a reati confezionati apposta per incastrarlo, come succede nei paesi in cui non vige lo stato di diritto. Carlo Nordio, ex-procuratore di Venezia, ha affermato durante un’intervista di Piero Senaldi: “dal punto di vista tecnico e logico considero il concorso esterno un ossimoro. Se si concorre si è dentro. Se non si è dentro, non si concorre”. Si può non essere d’accordo con l’opinione di Carlo Nordio sull’illogicità del reato, ma non si può negare che la condanna di Dell’Utri strida fortemente con l’articolo 25 della Costituzione.
Ora però dimentichiamo i motivi per cui Dell’Utri è entrato in carcere. Se è stato condannato in via definitiva, certo sarà colpevole. Così ragionano in molti, per quanto selettivamente, e ragioniamo pure così anche noi. In fondo, che Dell’Utri sia colpevole o innocente, giustamente condannato o no, nulla toglie alle ragioni per cui dal carcere ora deve uscire.
Deve uscire perché è gravemente malato e in carcere non può essere curato. Era malato da tempo, di diabete e di cuore. Il 20 luglio gli hanno diagnosticato un carcinoma alla prostata che richiede radioterapia. Il medico del carcere ha dichiarato da subito di non essere in grado di curarlo. La procura ha nominato consulenti, e i consulenti hanno dato ragione al medico del carcere. Dell’Utri deve essere curato in un centro specializzato. E allora che cosa ha fatto la procura? Ha sconfessato i suoi stessi consulenti, dando ragione invece ai periti del tribunale di sorveglianza, che a sua volta ha deciso di lasciare Dell’Utri dov’è, intimando al medico del carcere di provvedere. Questo, scusate, mi ricorda la scena del film “La Grande Guerra” in cui un generale passa in rivista le truppe al fronte e, constatato che il rancio è freddo, se ne va ordinando “si provveda”.
Morale: Il carcinoma è stato diagnosticato il 20 luglio. A oggi, cinque mesi dopo, nessuno ha ancora iniziato a curarlo.
Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti, alla conferenza stampa del 13 dicembre di Radio Radicale sul caso di Dell’Utri e dei molti nelle sue stesse condizioni, ha messo in guardia dalla deriva verso una giustizia guidata non tanto dalle leggi quanto dal consenso. Dal consenso di chi? Di noi tutti. Di chi applaude ma anche di chi tace. Via il consenso, via la deriva.
La moglie di Dell’Utri, in un intervento commosso e commovente alla stessa conferenza, ha posto questa domanda: “Nella nostra costituzione sta scritto che il diritto alla salute è per tutti e la pena dovrebbe essere rieducativa e non punitiva: una pena che va contro il senso di umanità può essere rieducativa?”. A questa domanda, nessuno può in coscienza rispondere “sì”.
Qualcuno obietterà che gli effetti della sentenza potrebbero essere annullati come per Contrada, grazie all’intervento della corte di Strasburgo. Uno sviluppo promettente, delle ultime ore, è la richiesta di sospensione della pena avanzata dalla procura di Caltanissetta, fondata proprio sul precedente costituito dalla scarcerazione di Contrada. Giustissimo, ma il verdetto arriverebbe probabilmente a tempo scaduto. Dell’Utri ha settantasei anni, e la sua malattia, se non curata, non perdona. Chi invece può perdonare, concedendo la grazia, è il Presidente della Repubblica. Dell’Utri dichiara che lui la grazia non la vuole, perché sarebbe come ammettere di essere colpevole, mentre lui colpevole non è. Chi di noi non reagirebbe con sdegno alla proposta di chiedere perdono per qualcosa di cui non si ritiene colpevole?
E allora la grazia chiediamola noi, per non renderci complici, con il nostro silenzio-assenso, di un’omissione di soccorso contraria al senso di umanità. “Il Tempo” di Roma ha rivolto a Mattarella un appello che ha già ricevuto migliaia di adesioni. Per aderire non c’è bisogno delle penne di Emile Zola o di Clemenceau. Bastano le nostre tastiere.

galera23

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