Di Maio O terremoto

Al di là delle più che comprensibili ironie, delle battute feroci, dello sconcerto palpabile nel movimento di cui è stato per più di un lustro il volto politico più presentabile, lo strappo governista del ministro degli esteri Luigi Di Maio è certamente l’atto singolarmente più rilevante e foriero di cambiamenti nello scenario politico italiano.
Il Movimento a 5 stelle, lo ricordiamo, aveva totalizzato il 32,3% dei consensi alle ultime elezioni politiche italiane, datate 2018, diventando numericamente la prima forza presente in Parlamento. Ma l’acqua passata sotto i ponti da quella data appare a tutti un flusso di portata tale da poter riequilibrare la siccità dei nostri fiumi, Po in primis. E infatti oggi a Montecitorio dopo la secessione dei 51 seguaci di Di Maio i deputati M5S sono 105, sopravanzati dai 132 leghisti.
Di fatto, in questi ultimi anni di pandemia, guerra e incredibili ribaltoni al vertice del potere, la decisione del giovane Di Maio costituisce un colpo di scena che potrebbe avviare un restyling globale dell’intero panorama politico italiano.
Il primo a essere chiamato, o per meglio dire costretto, a una presa di posizione è il Partito Democratico di Enrico Letta, ideatore, secondo molti non esclusivo e originale, di una strategia di alleanza con la sinistra radicale e il M5S, detta in gergo “campo largo”. Con quale parte del Movimento di Grillo il Pd continuerà a gestire un feeling da molti ritenuto puramente strumentale? Col giovane neocentrista Di Maio o con il suo nemico avvocato Conte, più volte elevato da Letta a punto di riferimento imprescindibile di un fronte comune da opporre alla temibile, anche se disorientata, destra? Il tutto senza peraltro sapere quale sarà la legge elettorale in vigore alla vigilia di confronto che si annuncia davvero aspro nel 2023. Per conoscere la risposta, immaginiamo il segretario Pd nell’esercizio di parafrasare Stalin: quante divisioni ha Di Maio?
Sul fronte opposto, logica vorrebbe che anche la Lega – condotta da Matteo Salvini a un’identità riconoscibile quasi esclusivamente nell’appoggio indiscriminato a Vladimir Putin e da ciò costretta a piroette politiche degne (o indegne) di Nureyev – avvertisse l’urgenza di un redde rationem interno, se non a sua volta di una scissione.
Tutto ciò sembrerebbe creare, anche per via dell’indubbio prestigio conquistato a suon di fatti da Mario Draghi, un notevole spazio politico al centro. Il quale è però, come l’Italia prima del Risorgimento, suddiviso in tanti, troppi staterelli stucchevolmente conflittuali, soprattutto dopo il Daspo comminato mediante un attacco di inedita potenza trasversale, a Matteo Renzi, leader dal carattere difficile ma certamente di razza.
Di questa situazione magmatica si avvantaggerà certamente la destra “pura” di Giorgia Meloni, forte di una strategia aggressiva ma attenta a non confondere la propria immagine a quella di nessun’altra forza politica. Gli esempi di conquista del potere da parte di estremisti, abili a trasformare in caterve di voti esasperazione e disincanto, non mancano certo, nella Storia italiana.
Anche perché, va detto, il 49% dei voti versati nel contenitore populista dagli elettori italiani nel 2018 da qualche parte dovranno pur finire.

 

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