L’estate in montagna sa di fieno, di cielo largo e albe fredde che ti vien voglia di camminare.
Sa di acqua di lago e odore di pini al tramonto.
Via dalla canicola di città, mi è ritornata in corpo la vita, la voglia di fare. E anche di mangiare, penso, mentre immagini di piatti succulenti titillano le mie papille, al punto che sono quasi sicura di sentirne l’odore.
E sia! Stasera si cucina, ché qui il fornello non ha mica sembianze luciferine.
Lavo, affetto, mescolo, le mani vanno quasi a memoria; dal primo al dolce la cucina si riempie in un attimo di tintinnii e profumi.
Mi avanza una melanzana, decido di usarla prima che, come amiamo scherzare in famiglia, diventi una melanziana.
La taglio a cubetti, salando e lasciandola spurgare mezz’ora in un colapasta. Friggo i quadrotti e li unisco a pane bagnato e strizzato, uova, prezzemolo, parmigiano, pepe e sale. Impasto (con le mani, naturalmente), do forma con i palmi e friggo. Osservarle mentre sfrigolano nell’olio, mi dà una strana euforia infantile.
Non c’era domenica d’estate della mia infanzia che non avesse il profumo delle polpette di melanzane preparate da mia madre. Belle, tonde, saporose, da mangiare appena fritte o il giorno dopo, intinte nel sugo.
Mi piaceva aiutarla nel lavoro, passarle tra le mani come palline e riporle nella scodella arancione in attesa della frittura. Non facevano in tempo a farsi mucchietto nel piatto di portata, che già le agguantavamo, tra le sue proteste inascoltate e gambe svelte che ci portavano fuori a riguadagnare i giochi.
Le giornate sembravano infinite e il futuro carico di promesse.
Erano altre estati, un altro luogo, un’altra vita…
Ora le preparo io: altre mani ma stessa voglia, stesso entusiasmo bambino.
E, unico vantaggio dell’età adulta, ad accompagnarle un buon calice di vino bianco freddo.