Alla fine non ce l’ho fatta a resistere, troppe lodi ingiustificate e troppe critiche cui invece non è stata data voce e devo rassegnarmi a parlare male di Diamanti. Arrivo in ritardo, lo so, ma è uno scoppio ritardato giustificabile; di fronte alla scoperta del Sacro Graal del regista da parte della critica dei giornali e giornaletti e dal cinguettare delle attrici intervistate in ogni dove – sono sincera – non me la sono sentita di fare sempre il bastian contrario. Ma ora, a distanza di qualche tempo, stemperata l’euforia generale, posso lanciare il mio grido di sdegno.
Mi rivolgerò a Ferzan perché ci conosciamo da anni nel bene e nel male. Ora, caro Ferzan, prendi una sartoria di alta moda degli anni ’70, mettici dentro una padrona-direttrice, cerbero dal cuore tenero e altre diciotto donne ognuna con la sua vita e la sua storia da raccontare, condisci con bei vestiti, tessuti fruscianti e succulenti banchetti e il gioco è fatto; o almeno hai pensato così. Realizza un bel film corale che esalta le preziose virtù che ogni donna ha dentro di sé, fai diventare ognuna di loro il sale della terra, metti in berlina quei quattro fantocci che interpretano la genìa maschile e il pubblico e la critica cadranno ai tuoi piedi.
No, non funziona così, caro Ferzan, non basta questo per fare un buon film, i tuoi personaggi sono tagliati con l’accetta, troppo precisi senza alcuna sfumatura incarnano clichè triti e ritriti da far invidia a certo cinema americano di terz’ordine.
Hai voluto che ogni donna rappresentasse un tema femminile dando a ognuna di loro dei contorni così ben definiti e senza sbavature da risultare del tutto inverosimili. Hai preso poi tutte le attrici che nuotano attualmente nell’acquario delle fiction Rai per fare un bel film minestrone. Direi di iniziare da chi non è una vera attrice, ma la regina dell’intrattenimento domenicale, la Zia nazionale che a mio parere, forse, è l’unica credibile per il solo fatto che non interpreta un personaggio, ma non fa altro che recitare una versione più sciattona di sé stessa o meglio dell’immagine che ormai da anni ammannisce nelle sue apparizioni televisive. Bruciato del tutto il personaggio di Luisa Ranieri, la direttrice dell’atelier, monolitica nei movimenti e nelle espressioni pietrificate dei suoi splendidi occhioni.
Ferzan, non si rappresenta così la durezza di carattere di una donna, ingabbiandola in movimenti rigidi e meccanici, facendo primi piani a gogò dei suoi occhi per strappare una qualche emozione allo spettatore. Risulterà poco credibile, iperrealistica, nell’illusione di rimarcare il concetto della donna forte che deve tenere le redini di un’azienda e anche di sé stessa. Parliamo poi della Trinca che aveva dato qualche prova positiva in altri film e che qui invece risulta una gattina smarrita e anche un po’ melensa. Il dolore devastante di una madre che ha perso la sua unica figlia in un incidente e che dopo cinque anni è ancora prigioniera del suo strazio non si rappresenta facendole tremolare continuamente il labbro nei suoi lunghi e silenziosi sguardi, sempre in primo piano anche qui per dare un bel tocco di melò e facendole tenere costantemente inclinata la testa da una parte pensando che sia il modo migliore per esprimere l’abbandono del corpo alla sofferenza dell’anima.
La Trinca, poi, per tutto il film annega la sua tempesta interiore bevendo continuamente, tenendo in mano un flute di vino come lo terrebbe una diciottenne della buona società alla festa del suo debutto, appoggiando il labbro incerto sul bordo del bicchiere e tirando su un sorsettino ogni tanto.
Ferzan, ti ricordo che questa è una donna disperata, al bicchiere chiede di chiuderle la bocca per non urlare di dolore, ci si deve aggrappare, non deve essere lei a portare a spasso il bicchiere, ma è il bicchiere che la deve risucchiare, annichilire, ti prego Ferzan insegna alla Trinca almeno a trincare!
Una menzione d’onore si deve tributare al personaggio di Geppi Cucciari che entra nel contesto storico e narrativo del film come un bel pugno nello stomaco. Se per un attimo la narrazione aveva miracolosamente fatto un piccolo passo verso la tensione emotiva, le sue battute fanno crollare rovinosamente il pallido climax che si era faticosamente tentato di creare. Si viene di colpo catapultati nei siparietti da “Splendida Cornice” assolutamente fuori contesto di ogni tipo anche storico perché negli anni ‘70 nessuna donna, anche la più sarcastica, si sarebbe mai espressa in quel modo.
Gli uomini fantoccio sono grotteschi e neanche lontanamente riescono a esprimere quello che vorrebbe essere il messaggio del regista e cioè che il mondo femminile è al di sopra di mille spanne rispetto a quello maschile. Come grottesco risulta il personaggio interpretato da Lunetta Savino che comunque in questa occasione fa il suo compitino per strappare la sufficienza, ma che è veramente poco credibile nei panni dell’amante del giovane ragazzo di bottega. Capisco che il regista abbia voluto sdoganare il pregiudizio dell’età nelle relazioni erotico -sentimentali sempre penalizzanti nei confronti delle donne più grandi e lanciare un messaggio di uguaglianza, direi pure di speranza, ma la buona intenzione cade miseramente davanti alla visione della Savino in sottoveste nera che è verosimile come un’astronave che atterra nel giardino di casa.
Si arriva poi al tema della violenza sulle donne. La povera donna vessata e picchiata dal marito-padrone alla fine avrà il suo riscatto e nell’ultima furiosa lite si libererà dell’uomo maledetto catafottendolo nel pozzo di casa. Fin qui tutto bene e il pubblico ne gioisce, ma allora perché svilire questo gesto drammatico e comunque terribile per chi lo compie, facendola poi apparire, dopo la “ liberazione”, tutta garrula, truccata mentre fuma gioiosa sfoggiando una pettinatura nuova. Ferzan, è la sagra della grossolanità, per favore dai a questa donna il tempo di riprendersi ed esprimi il senso di liberazione dando nuove sfumature alle sue espressioni e non stampandole un rossetto scarlatto sulla bocca.
Leggermente più realistico è il personaggio interpretato dalla Minaccioni, la madre del figlio adolescente problematico con un marito assente; ma stiamo comunque parlando del minimo sindacale anche recitativo. Per corollario troviamo la madre single di un bambino relegato nella stanza dei bottoni, che sono realmente bottoni e non alte sfere, ingannata da un amante turco e la nipote ribelle della Savino che, costretta a nascondersi nella sartoria perché ricercata dalla polizia, riceve miracolosamente dal cielo in una sola notte il dono della creatività sartoriale.
L’unico personaggio al quale il regista ha voluto dare almeno la terza dimensione è quello interpretato dalla Scalera, la geniale costumista che ha vinto un Oscar, facendole recitare un breve monologo sul senso di inadeguatezza che a volte assale ognuno di noi. E la Scalera per fortuna lo sa recitare. Fanno da ciliegina sulla torta le due attrici rivali, nella finzione, la Signoris e la Smutniak sbiadite nell’interpretazione che non risulta neanche per un attimo spietata e velenosa come dovrebbe.
Un piccolo accenno all’amore perduto della Ranieri, l’innamorato Recano che si è immolato sull’altare delle sue responsabilità sposando una donna che non amava rimasta vittima di un incidente. Per chi ama il cinema non può non andare con la memoria a un vecchio film interpretato da Cary Grant e Deborah Kerr, “Un amore splendido” e avere un sussulto di nostalgia per la magia di quelle interpretazioni. Qui la storia è capovolta, ma il tema è sempre quello di una donna inferma e il senso di responsabilità che ne deriva per chi le è accanto. Pensare all’interpretazione di Cary Grant e vedere sullo schermo lo sguardo di Recano che guarda straziato la Ranieri fa veramente male al cuore.
Piccolo cameo finale con Elena Sofia Ricci di cui ricordo solo lo splendido vestito.
Non tutto però è da buttare: come in ogni film di Ozpetek che si rispetti c’è una grande attenzione al cibo e alle grandi tavolate conviviali dove spesso i protagonisti si confessano. Forse anch’io sarei capitolata davanti alle polpette della Venier e avrei potuto dire che il film era bellissimo, ma l’ho visto a stomaco pieno.
Caro Ferzan, che modo grossier hai usato per rendere omaggio alle donne, alle loro silenziose battaglie quotidiane, ai piccoli grandi miracoli che compiono senza accorgersene e all’universo femminile tutto, le hai fatte diventare come i manichini della tua sartoria.
Ti prego, torna alla Finestra di fronte , alle Fate ignoranti, alla Napoli velata, rinuncia alle commemorazioni didascaliche che non ti si addicono e di cui non abbiamo bisogno, torna a farci emozionare con i tuoi personaggi stralunati, ma veri, dove nessuno è solo bianco o solo nero e torna a scavare nei sotterranei dell’anima dove risiedono le sorgenti delle emozioni perché è di questo sono fatti gli esseri umani, donne o uomini che siano
Grazie per avermi proiettato virtualmente il film che temevo. Ciò mi consentirà di risparmiare dieci euro e un lieve mal di pancia. In cambio, il consiglio del vecchio scriba: più concisione.
Sono d’accordo. Anche per me è stato ina delusione
risparmierò anch’io il costo del biglietto; grazie.
caro ferzan ozpetek, tu non sempre ci azzek
👍