Chissà come sarebbero stati ricordati, tra cinquant’anni, quei giorni. Dato il calo progressivo di immaginazione e creatività accusato dalla stirpe umana, probabile che, tra loro, i vecchietti rimasti avrebbero detto ammiccando “Ehi, ti ricordi i tempi del Coronavirus?” “Oddio, sì, che rottura di palle” “E perché, dopo? Non girava più un euro, mi vendetti la macchina, pensa” “ Io la casa!” “ Io la moglie!” e giù a ridere, all’ospizio, davanti allo schermo olografico che trasmette vecchi filmati del 2020.
Ma torniamo a noi. Emilio viveva solo, e in quei giorni lo andava a trovare (e di rado) solo suo figlio Fabrizio, quindici anni per un metro e ottantaquattro. Fabrizio abitava lì era tutta un’altra storia, la casa era animata, l’ordine e la precaria pulizia mantenuti a stento personalmente da Emilio, orfano anche della colf, andavano in pezzi dopo pochi minuti, ma ne valeva la pena. Scarpe da ginnastica e libri di scuola dappertutto, tavoli e tavolini sommersi da residui alimentari sotto forma di molliche e succhi di frutta consumati a diecine, cartacce di tutti i tipi. Armamentari tecnologici tenuti insieme da cavi e cavetti di alimentazione e ricarica, smartphone, computer portatili anche nel cesso. Ma clima e tono umorale in netto rialzo. Unica alternativa, la Stella Danzante. Ma l’altra figlia era prigioniera in casa della madre, troppo lontana per muoversi. Sì, due madri ben distinte, lo dico per spiegare il complesso stato di famiglia di Emilio.
Il vero diario del morbo però, ufficiale e senza diversivi, è quello delle giornate solitarie, basato sulla gestione oculata della sera precedente. Come si diceva, l’ora del risveglio è basilare, guai a ritrovarsi con gli occhi sbarrati alle sei di mattina: molto più sopportabile una serata lunga, morbida, dilatata, di un’attesa sfiancante dell’ora di pranzo. L’obiettivo è fissato tra le nove e le nove e mezza.
Per questo Emilio la sera resisteva il più possibile nella postazione compatta, come un gattone rattrappito, sul divano di fronte all’amata-odiata tv. L’ideale era trovare una serie coinvolgente, di cui divorare puntate a getto continuo. Niente pubblicità, e questo costringeva anche a mantenere la necessaria autonomia per decidere stop regolari, allo scopo di fare una passeggiata di due metri fino al computer a sparare qualche sentenza provocatoria sui social. O addirittura, fino in cucina a prendere un paio di mandarini. In caso estremo, anche al bagno.
Verso le undici e mezza l’obiettivo è raggiunto. L’avvilente stanchezza del far niente ha preso il sopravvento – il rituale può avere inizio, onde evitare l’esiziale addormentamento in loco e conseguenze connesse. Dunque: si raccolgono cartacce autoprodotte, bucce di mandarino, cordless e i due cellulari. Comincia la marcia verso la camera da letto. Un’occhiata al pc, l’ultima battuta, spento anche lui, l’amico indispensabile.
Emilio ora sta ingoiando le pillole della sera e tra poco è a letto. Ah, c’era da spegnere il riscaldamento, altri dieci passi ottimi per l’esercizio fisico. Era anche rimasta accesa una luce in salotto. E la porta di casa da chiudere col paletto. E se mi viene un colpo di notte, pensa lui, tutte le sere? Il tempo perso dai soccorritori a scardinare l’uscio potrebbe essere fatale. Ma chi sono questi soccorritori, chi li ha chiamati? Emilio mette il paletto e si infila a letto.
La melatonina, è calcolato, ci mette un quarto d’ora ad agire. Tre partite a Ruzzle e dieci pagine del romanzo in sospeso. Da leggere, non da scrivere. La scrittura è roba mattutina, quando la flebile scintilla creativa, in combutta col caffè, si rianima garantendo all’anziano protagonista almeno 30/40 minuti di lucida follia.
Il che ci porta diretti al mattino dopo. Ingerita colazione e medicinali, Emilio è seduto davanti al monitor: urge tirare le fila delle polemiche e delle schermaglie (a volte anche amorose) intessute il giorno prima per mettere subito nuova carne al fuoco, il fabbisogno quotidiano. Col suo stile disordinato, salta dal racconto in fase di scrittura, al calembour da condividere con gli amici del web, alle notizie sullo stato del morbo, come se niente fosse. Intorno all’una, il primo momento di sconforto. I telegiornali continuano a trasmettere verità contorte, provocando il subdolo stato di ansietà, tipico delle notizie dette e non dette, con immagini di desolazione alternate a proclami e incitazioni al coraggio che suonano inesorabilmente vuote e velleitarie. Emilio vira su un film francese, in grado di trasportarlo al bollettino delle 18, coi dati aggiornati del virus. Ma ormai non ci si capisce più niente, tutto è relativo: decessi, contagiati, guariti, dati da interpretare rispetto a ieri, a quando tutto è iniziato, al sud, al nord, alla Cina all’America, al resto d’Europa. Parte la musica del flashmob, ma ormai è quasi una coltellata in più.
C’è da preparare un abbozzo di cena, di fare un paio di telefonate. Poi ancora il divano. E si ricomincia.