Il ritorno di Aldòmovar
Salvador è un regista ricco e famoso ma, afflitto da mille mali fisici e psichici, non riesce più a scrivere alcunché e passa il tempo rintanato nella sua lussuosa casa a leggere e dormicchiare. Scontroso e depresso, rifiuta ogni occasione mondana, finché gli capita di rivedere un suo film di 30 anni prima, da cui all’epoca aveva preso le distanze e che aveva cercato di dimenticare.
Almodòvar torna al cinema dopo tre anni di assenza (l’ultimo il bellissimo Julieta) raccontando se stesso, la sua omosessualità, le sue origini. Con uno smagliante gioco di reverie, il regista spagnolo incrocia la storia del maturo Salvador (suo alter-ego) con quella del bambino che viveva con i genitori – soprattutto con la madre – nel paesino valenciano, in cui una grotta, alla bisogna, fungeva da casa. Un’infanzia povera eppure luminosa – la luce che filtra dall’alto nel cortile, le piastrelle colorate alle pareti, la madre che lava i panni con le amiche in riva al fiume.
Come in altre opere di Almodòvar la madre è figura centrale, qui interpretata da Penelope Cruz negli anni giovanili e da Julieta Serrano in vecchiaia. Entrambe bravissime, hanno con il piccolo e con l’adulto Salvador un rapporto simbiotico, di amore assoluto eppure non scevro da critiche e rimbrotti – non sei stato un buon figlio per me – gli dice la madre da vecchia.
E insieme all’eterna musa Penelope Cruz, l’altro attore cult, un rinnovato Antonio Banderas (Salvador), che nella maturità ritrova intatto il suo fascino: i capelli scomposti, la barba brizzolata, lo sguardo che da spento si fa brillante nel ricordo di un passato che è anche oggi, se lo si vuole ritrovare. Un film, come nel precedente Julieta, privo di barocchismi che talvolta hanno appesantito la cinematografia di Almodòvar, in cui il puzzle sconnesso di una vita di eccessi e rimozioni, si ricompone grazie all’amore e alla forza di sentimenti che si credevano sopiti. (Costanza Firrao)
Salvador è un regista ricco e famoso ma, afflitto da mille mali fisici e psichici, non riesce più a scrivere alcunché e passa il tempo rintanato nella sua lussuosa casa a leggere e dormicchiare. Scontroso e depresso, rifiuta ogni occasione mondana, finché gli capita di rivedere un suo film di 30 anni prima, da cui all’epoca aveva preso le distanze e che aveva cercato di dimenticare.
Almodòvar torna al cinema dopo tre anni di assenza (l’ultimo il bellissimo Julieta) raccontando se stesso, la sua omosessualità, le sue origini. Con uno smagliante gioco di reverie, il regista spagnolo incrocia la storia del maturo Salvador (suo alter-ego) con quella del bambino che viveva con i genitori – soprattutto con la madre – nel paesino valenciano, in cui una grotta, alla bisogna, fungeva da casa. Un’infanzia povera eppure luminosa – la luce che filtra dall’alto nel cortile, le piastrelle colorate alle pareti, la madre che lava i panni con le amiche in riva al fiume.
Come in altre opere di Almodòvar la madre è figura centrale, qui interpretata da Penelope Cruz negli anni giovanili e da Julieta Serrano in vecchiaia. Entrambe bravissime, hanno con il piccolo e con l’adulto Salvador un rapporto simbiotico, di amore assoluto eppure non scevro da critiche e rimbrotti – non sei stato un buon figlio per me – gli dice la madre da vecchia.
E insieme all’eterna musa Penelope Cruz, l’altro attore cult, un rinnovato Antonio Banderas (Salvador), che nella maturità ritrova intatto il suo fascino: i capelli scomposti, la barba brizzolata, lo sguardo che da spento si fa brillante nel ricordo di un passato che è anche oggi, se lo si vuole ritrovare. Un film, come nel precedente Julieta, privo di barocchismi che talvolta hanno appesantito la cinematografia di Almodòvar, in cui il puzzle sconnesso di una vita di eccessi e rimozioni, si ricompone grazie all’amore e alla forza di sentimenti che si credevano sopiti. (Costanza Firrao)
Il ricordo del desiderio
Non si può mai restare indifferenti ai film di Almodòvar, possono anche non piacerci ma da lui ci arrivano sempre delle scosse emotive. Succede anche e soprattutto con “Dolor y Gloria”, il suo ultimo lavoro presentato a Cannes che è una dolente autobiografia con Antonio Banderas (alter-ego del regista) in stato di grazia, fascinoso e bravissimo nel ruolo di misantropo in crisi creativa (inevitabile il confronto con “Otto e mezzo” di Fellini). Noi spettatori veniamo da subito avvolti nei colori accesi tipici di tutta la cinematografia di Almodòvar, con una prevalenza di atmosfere rosse e passionali in un andirivieni tra il passato e il presente, tra le nostalgie e il dormiveglia della depressione fatta di troppi farmaci per curare malanni veri e psicosomatici. All’inizio il protagonista fa un ritratto impietosamente sincero di sé mentre elenca difficoltà fisiche ed esistenziali, e intanto veniamo sempre più coinvolti in quell’intreccio di relazioni perdute e ritrovate. Questa storia è un atto d’amore per il cinema ma ci parla anche del rapporto intenso e complicato tra madre e figlio e
alla fine, grazie a una rielaborazione degli errori passati, ecco che riemerge il ricordo del desiderio insieme alla rinascita. Più misurato del solito e con un narcisismo più contenuto, senza gli eccessi e gli sbrodolamenti di alcuni suoi film precedenti, Almodòvar ci racconta la rinnovata creatività del protagonista ( e ovviamente anche sua) in questo diario struggente che all’uscita ci lascia storditi come capita sempre quando ci troviamo di fronte ai capolavori. (Giuliana Maldini)
Non si può mai restare indifferenti ai film di Almodòvar, possono anche non piacerci ma da lui ci arrivano sempre delle scosse emotive. Succede anche e soprattutto con “Dolor y Gloria”, il suo ultimo lavoro presentato a Cannes che è una dolente autobiografia con Antonio Banderas (alter-ego del regista) in stato di grazia, fascinoso e bravissimo nel ruolo di misantropo in crisi creativa (inevitabile il confronto con “Otto e mezzo” di Fellini). Noi spettatori veniamo da subito avvolti nei colori accesi tipici di tutta la cinematografia di Almodòvar, con una prevalenza di atmosfere rosse e passionali in un andirivieni tra il passato e il presente, tra le nostalgie e il dormiveglia della depressione fatta di troppi farmaci per curare malanni veri e psicosomatici. All’inizio il protagonista fa un ritratto impietosamente sincero di sé mentre elenca difficoltà fisiche ed esistenziali, e intanto veniamo sempre più coinvolti in quell’intreccio di relazioni perdute e ritrovate. Questa storia è un atto d’amore per il cinema ma ci parla anche del rapporto intenso e complicato tra madre e figlio e
alla fine, grazie a una rielaborazione degli errori passati, ecco che riemerge il ricordo del desiderio insieme alla rinascita. Più misurato del solito e con un narcisismo più contenuto, senza gli eccessi e gli sbrodolamenti di alcuni suoi film precedenti, Almodòvar ci racconta la rinnovata creatività del protagonista ( e ovviamente anche sua) in questo diario struggente che all’uscita ci lascia storditi come capita sempre quando ci troviamo di fronte ai capolavori. (Giuliana Maldini)
Dolor y Gloria di Pedro Almodòvar – Spagna 2019